Un proiettile al cuore di Abe e a quello del Giappone
«Non vorrei essere ricordato per quello che non sono riuscito a fare, piuttosto che per quello che ho fatto». È una frase che ripeteva spesso negli ultimi tempi, non necessariamente durante le riunioni del partito, cui oramai di rado partecipava. Più che altro alla moglie, l’amata (e temuta) Akie, l’unica capace di contraddirlo e di farlo sorridere, agli amici fidati, tra i quali alcuni giornalisti stranieri, con i quali aveva sempre avuto un rapporto diretto e franco, tra i pochi nel mondo politico giapponese. A Shinzo Abe, da oltre 40 anni protagonista della scena politica giapponese e per ben due volte premier (il suo ultimo mandato, dal 2012 al 2020, gli è valso il record di longevità nel dopoguerra) non andava giù di non essere riuscito a “liberare” il Giappone da quella che sempre più spesso definiva la sua «umiliante» Costituzione. Una Costituzione «bella e impossibile», dettata (letteralmente) dagli americani nell’immediato dopoguerra e che ha regalato al Giappone (e al mondo, visto che nessun’altra Costituzione lo prevede) il famoso art.9, quello che non solo ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, ma che prevede, al secondo comma, gli «strumenti» per realizzarlo in concreto. «A tale scopo, il Giappone rinuncia per sempre a possedere forze armate di terra, mare e aria, e rinuncia al diritto di belligeranza». Sappiamo tutti - popolo giapponese compreso - che sin dagli anni ’50, ai tempi della guerra di Corea, questo divieto è stato aggirato - diciamo pure violato - e che il budget militare del Giappone, nonostante sia ancora fermo a circa l’1% del GNP, è diventato il settimo del mondo, circa 60 miliardi di dollari (quasi il doppio di quello italiano), e che vi sono 250 mila uomini in «armi», sia pure sotto il nome di Forze di Autodifesa. Ma Shinzo Abe - nipote di quel Nobusuke Kishi che dopo essere stato ministro prima e durante la guerra, era stato accusato di crimini di guerra ma poi «graziato» dagli alleati e autorizzato a «rientrare» nella scena politica - voleva «legittimare» questa ambigua situazione, sancita proprio dal nonno. Approvare la riforma costituzionale in parlamento (e l’avrebbe potuto fare: ci sono stati momenti in cui disponeva di una maggioranza assoluta di memoria bulgara) e poi sottoporla al referendum popolare. E lì avrebbe perso, perché i giapponesi, memori di quanto hanno sofferto durante la guerra, l’art.9 ormai l’hanno iscritto nel loro DNA, e non ci sarà nessuno capace di far cambiare loro idea. Ma Abe ci credeva, ed è per questo che avrebbe voluto tentare ancora una volta.
Non ce l’ha fatta. Proprio mentre la sua fastidiosa, invalidante malattia (rettocolite ulcerosa) gli aveva di nuovo dato tregua, proprio mentre era tornato attivo e si stava generosamente spendendo, da buon vecchio leader, per appoggiare un giovane candidato alle elezioni suppletive per il rinnovo parziale della Camera Alta di domenica (fino a oggi insignificanti, ma che invece passeranno alla storia), è stato brutalmente abbattuto da un disperato, uno squilibrato che paradossalmente aveva avuto una breve esperienza nella marina militare, dalla quale era stato respinto per «comportamento sconveniente». «Ho sparato ad Abe perché mi ha deluso», pare abbia dichiarato, dopo aver confessato il suo folle gesto. Un gesto che di «politico» ha ben poco, ma che di effetti politici ne produrrà, senza alcun dubbio.
Intanto c’è già chi invoca maggiore «sicurezza». Il Giappone è un Paese talmente sicuro, con leggi rigorosissime che regolano il possesso di armi, che anche i politici vanno in giro senza particolari scorte. Abe, un ex premier che in qualsiasi Paese al mondo sarebbe stato protetto da decine di uomini della sicurezza, era sopra il tetto di un minibus, raggiungibile da chiunque. E così è stato. C’è il rischio che qualcuno ne approfitti per invocare maggiore sicurezza, e in questi casi si sa come si comincia, ma non dove si va a finire. Già i media locali speculano su questo aspetto: nelle ultime ore, oltre al tentativo di scavare nel passato di Tetsuya Yamagami, l’attentatore (qualcuno ha trovato un improbabile legame con la setta Aum Shin Rikyo, quella dell’attentato al gas sarin nella mteropolitana di Tokyo), nei talk show non si fa che insistere sul fatto che il Giappone è un Paese troppo «ingenuo», e che è necessario adottare nuove e stringenti misure di sicurezza. Speriamo di no.