«Vi racconto come Netanyahu è salito al potere»
Qual è la storia della Palestina e di Israele? Che cosa è successo prima del 7 ottobre 2023? Come leggere il conflitto in Medio Oriente? Con La Terra complessa, il Corriere del Ticino prova a rispondere a queste domande, proponendovi – in compagnia dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand – una ricostruzione fattuale di quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.
Dopo una prima parte divisa in quattro puntate (sotto la lista), rubrica e podcast tornano per trattare l'ultimo trentennio, dall'inizio degli anni Novanta al massacro del 7 ottobre.
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Puntata 5 – Gli anni Novanta: dal processo di Oslo all'ascesa di Netanyahu
Avevamo concluso la quarta puntata parlando dello sviluppo dell'islamismo nazionalista, della nascita di Hamas e della Prima intifada. Era la fine degli anni Ottanta. Entriamo ora in un decennio importante per la regione...
«Sì, ci inoltriamo negli anni Novanta. Un periodo di cambiamento epocale iniziato con la fine della Guerra Fredda. Sin qui, in Medio Oriente, si era assistito a una sorta di guerra proxy fra Mosca e Washington. La prima sosteneva i movimenti palestinesi, la seconda Israele. Negli anni Novanta tutto questo viene a cadere e si va verso un mondo unipolare, dove gli Stati Uniti sono in grado di dettare legge e imporre la propria volontà, o farlo più facilmente di prima. È in questo contesto che si arriva al processo di Oslo nel quale gli attori principali sono essenzialmente due: Rabin e Arafat. Di Arafat ne abbiamo già parlato nelle puntate precedenti. In questi
anni, capo dell'OLP sin dal '68, si trova molto lontano dal Levante: opera dalla Tunisia. E questo, vedremo più avanti, è un problema che influenzerà le decisioni riguardanti il processo di Oslo».
E Rabin?
«Yitzhak Rabin, invece, è un politico israeliano laburista, già generale nella guerra dei sei giorni. Tipicamente, i premier israeliani sono ufficiali di alto rango. Ed è così anche per Rabin: entrato in politica negli anni Settanta, ottiene un primo mandato nel 1974, poi – dopo la fase del Likud al potere negli anni Ottanta – torna nel 1992. Sì, Rabin è il leader della sinistra laburista, ma bisogna insistere su un fatto. Nell'immaginario europeo, questa appartenenza viene tradotta in modo semplicistico: «Sono per la pace». I laburisti israeliani sono per un controllo meno violento dei territori occupati, ma rimangono dedicati al sionismo, che è un progetto di colonizzazione. Da questo punto di vista, la sinistra e la destra spingono allo stesso modo per favorire l'insediamento di israeliani nei territori occupati. Come dottrina, il sionismo punta a massimizzare l'accesso israeliano alla terra della Palestina storica e minimizzare, al contempo, la presenza delle popolazioni palestinesi. Rabin e i laburisti, così come il Likud, hanno messo in atto misure per strangolare la popolazione palestinese di Gerusalemme Est – come circondare la città di insediamenti o creare difficoltà burocratiche – per farla partire e avere una maggioranza di ebrei in una Gerusalemme unificata. Ecco chi è Rabin, il partner di pace di Arafat».
Per i palestinesi, dunque, Rabin non rappresenta un partner valido?
«La popolazione palestinese non aveva particolare simpatia per il politico israeliano. Nella prima Intifada, Rabin aveva affermato che la rivolta andava sedata "rompendo le ossa ai palestinesi". Immagini come questa non ne facevano una figura stimata. Ma per l'OLP e Arafat la questione è differente. Nel 1990, Arafat fece l'errore, come altri Paesi arabi, di sostenere Saddam Hussein nell'invasione del Kuwait. E pagò molto caro questa decisione, che portò l'OLP a perdere la maggior parte del sostegno finanziario internazionale. Complice la caduta dell'URSS, sostenitrice dei palestinesi, nel '91-'92 l'OLP è definitivamente allo sbando. È in questo momento che Bush senior, presidente USA, convoca la conferenza di Madrid a fine '91 per creare, sulla scia della
ripresa del Kuwait, un ordine regionale. È un momento unico nella storia del Medio Oriente, perché per la prima volta al tavolo sono invitati tutti: israeliani, siriani, libanesi, palestinesi, giordani e così via. Con questo
processo multilaterale, Bush sr. mette un'enorme pressione su
Israele perché ponga fine alla politica di insediamento. E questo va sottolineato: storicamente, gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto Israele, ma ci sono state delle fasi ('48-'49, inizio anni Novanta e poi più tardi con Obama) in cui fu proprio Washington a mettere sotto pressione il Governo israeliano».
Come si svolge questa fase?
«A Madrid l'OLP manda personalità importanti come il dottor Haidar Abdel-Shafi, Hanan Ashrawi e Albert Aghazarian. I palestinesi riponevano grande speranza in questa conferenza multilaterale, ritenuta il mezzo migliore per risolvere la questione sulla base del diritto internazionale e risoluzione 242 dell'ONU. Ma Israele non ne vuole sapere e il processo si arena. Come conseguenza, viene avviato una nuova discussione fra Israele e l'OLP nella capitale norvegese, che darà poi il nome agli accordi scaturiti: gli accordi di Oslo. Qui, per mesi, le due parti si incontrano segretamente nell'ambito di un processo di pace ad hoc. Una modalità che implica un quadro negoziale con soltanto due parti, Israele e Palestina, al di fuori del contesto multilaterale e del diritto internazionale, come altrimenti sarebbe stato a Madrid. Non è un caso che Israele fosse favorevole a un processo ad hoc: ogni passo va inventato, ogni passo va negoziato, senza le regole rigide e prevedibili imposte da una trattativa ONU. Israele vede il processo di pace di Oslo come un'occasione per far venire al tavolo delle trattative un'OLP furibonda e priva di sostegno internazionale, lontana dai territori occupati. È così che arriviamo alla famosa foto del settembre '93, che ritrae Bill Clinton, davanti alla Casa Bianca, insieme a Yasser Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin. Questi ultimi firmano un documento, la dichiarazione di principi, dove entrambe le parti si impegnano a trovare nel giro di 5 anni un'intesa definitiva».
Di che cosa parliamo, concretamente?
«Nella prima parte degli accordi di Oslo, Oslo I, l'OLP accetta di cambiare la propria carta (una sorta di "costituzione" dell'organizzazione, ndr), rimuovendo la parte che prevede la creazione di uno Stato democratico tramite l'eliminazione di Israele. Il riconoscimento del diritto di Israele all'esistenza rappresenta un passaggio importantissimo degli accordi di Oslo. Israele, dal canto suo, riconosce l'OLP – sin qui etichettata come entità terroristica – come rappresentante del popolo palestinese. Arafat e altri 100 mila membri dell'OLP, rifugiati a Tunisi, possono rientrare nei territori palestinesi. Gli accordi portano anche alla nascita (nel luglio '94) dell'Autorità nazionale palestinese, l'ANP, e di una forma di autogoverno palestinese in parte dei territori occupati. Qualcuno potrebbe pensare che la creazione di un'autorità nazionale possa coincidere con la nascita di uno Stato sovrano palestinese, ma no: non è così. La logica di Oslo è proprio lasciare i palestinesi ad autogestirsi in una situazione confusa, dove si possono
arenare facilmente. L'Autorità nazionale
palestinese è una forma di amministrazione
autonoma come può esistere in Catalogna o in Trentino-Alto Adige, dove il quadro rimane sempre uno Stato
sovrano spagnolo, uno Stato sovrano italiano. All'ANP, dunque, è concessa l'amministrazione di piccole enclavi che sono sempre sotto il controllo sovrano di Israele. Con Oslo II, assistiamo alla creazione di nuove città palestinesi autonome (Ramallah, Nablus,
Hebron, Qalqilya, Tulkarem, Jenin e altre) che in Cisgiordania vanno a formare un vero e proprio arcipelago. A governare su queste zone disposte a macchia di leopardo è l'ANP, ma ai milioni di profughi palestinesi che vivono all'estero (soprattutto fra Libano, Siria e Giordania) non è concesso rientrarvi».
Gli accordi di Oslo sono quindi una vittoria di Pirro per i palestinesi?
«Oslo rappresenta un colpo di genio da parte di Rabin. Nel '92-'93, il premier si circonda dei migliori avvocati israeliani per stabilire una linea: come concedere qualcosa ai palestinesi ma evitare, al contempo, la nascita di uno Stato sovrano? Da questo punto di vista, la logica di Oslo è perfetta, perché rende i
palestinesi prigionieri del progetto di autogestione, permettendo di rimandare la creazione di uno Stato palestinese e far crescere, al contempo, la politica di insediamento nei territori occupati. Tanto che negli anni Novanta il numero di coloni passa da 200 mila a 400 mila. Qualcuno potrebbe dire: "Ma come, Israele vuole la pace ma continua ad alimentare gli insediamenti illegali? Non è una contraddizione?". Lo è per chi pensa che l'obiettivo del processo di Oslo era quello di creare
uno Stato palestinese sovrano sui territori occupati.
Per chi sa che l'obiettivo del sionismo è massimizzare per gli israeliani l'accesso alla terra e minimizzare la presenza di palestinesi, il progetto di Rabin risulta assolutamente razionale.
Noi pensiamo al processo di Oslo come questa grande strada trionfale verso la pace
e la sovranità palestinese. Ma sin dall'inizio intellettuali palestinesi come Edward Said e tanti politici si opposero a Oslo, chiedendo di tornare al quadro multilaterale di Madrid. Ma non furono ascoltati da Arafat, che accettò le condizioni asimmetriche pur di ottenere una vittoria personale, celebrata nel ritorno trionfale a Gaza nel luglio '94».
Come funzionano le zone create dagli accordi in Cisgiordania?
«L'architettura di Oslo prevede la creazione di tre zone: A, B e C. Le zone A sono zone di autogestione sotto l'autorità dell'ANP e dove i palestinesi hanno diritto all'istituzione di una polizia civile. Fanno parte delle zone A i municipi di Ramallah, Hebron, Gerico, Tulkarem e altre città della Cisgiordania. Nelle zone B, all'ANP è concesso gestire scuole, ospedali e altre strutture civili, ma la sicurezza è gestita da Israele e non può dunque esistere una polizia palestinese. Le zone C, invece, formano la parte della Cisgiordania sotto il controllo totale di Israele. Ricordiamo che ai palestinesi, nel '48, rimane il 22% dell'intera Palestina storica. Con gli accordi di Oslo, la Cisgiordania viene suddivisa ulteriormente e solo poco più del 40% dei territori occupati viene governata dall'Autorità palestinese (17% zona A, 25% zona B), mentre quasi il 60% è sotto il completo controllo israeliano. I palestinesi non controllano le frontiere, non controllano l'accesso all'acqua, non controllano Gerusalemme Est e non hanno uno Stato sovrano».
Nonostante Oslo rappresenti, anche, una vittoria per il progetto coloniale israeliano, alcuni gruppi estremisti non hanno apprezzato le concessioni fatte ai palestinesi...
«Esatto, la soluzione non fa contenti molti palestinesi, ma nemmeno gli israeliani più estremisti. E ciò porta a famosi episodi di violenza, partendo dall'assassinio di Rabin. Rabin, come detto, sostiene il processo di Oslo, ma le forze di destra, il Likud in particolare, pensano che il premier stia facendo troppe concessioni ai palestinesi. Il malcontento in questi ambienti cresce e sfocia in una serie di proteste contro il Governo laburista e Rabin, che in una manifestazione nel '95 viene paragonato a Hitler. Si genera così, all'interno dello stesso Stato di Israele, una retorica estremamente violenta contro il premier, che porta poi al suo assassinio per mano di Yigal Amir. L'attentato avviene a Tel Aviv, il 4 novembre 1995, durante una grande manifestazione a sostegno del processo di pace. Morto Rabin, al suo posto sale al potere il vice Shimon Peres, grande politico e diplomatico, ma che a livello di percorso non aveva la stessa legittimità di altri politici. Peres non era, come tradizione, un militare. E infatti perderà qualche mese più tardi (giugno 1996, ndr) le elezioni contro un ex militare: Benjamin Netanyahu. Il processo di pace e l'attuazione degli accordi di Oslo subiscono un duro colpo con la morte di Rabin. Ma stavano già affrontando grandi difficoltà a causa delle enormi violenze registrate da entrambi i lati. Da sottolineare, in particolare, il caso di Baruch Goldstein: un dottore con cittadinanza israeliana e statunitense, vive in una delle colonia israeliane più aggressive, quella di Kiryat Arba, nei pressi di Hebron. Nel febbraio '94, a pochi mesi dalla firma sugli accordi di Oslo, Goldstein entra nella moschea di Ibrahim (conosciuta anche come Tomba dei Patriarchi, ndr), un luogo santissimo per i musulmani, e spara contro la gente intenta a pregare. Un bagno di sangue orribile: 29 morti e oltre 100 feriti. Linciato dai presenti, Goldstein diventa un eroe per la destra ultranazionalista, tanto che – recentemente – Itamar Ben-Gvir, uno dei ministri al governo con Netanyahu, ha affermato di aver a lungo tenuto, nel proprio ufficio politico, una foto di Baruch Goldstein: ciò illustra bene di che pasta sia fatta la destra ultranazionalista israeliana dei nostri giorni. Gente che sostiene la violenza da parte dei coloni e una forma di pulizia etnica dal basso. Il massacro di Hebron crea un terremoto in Palestina e pochi mesi dopo, Hamas lancia una serie di attacchi suicidi contro autobus israeliani, causando decine di morti e feriti. Hamas, quindi, reagisce al terrorismo di Baruch Goldstein. Ma la resistenza, secondo il diritto internazionale, non può prendere di mira i civili: solo la potenza militare occupante. Di qui, le accuse reciproche di atti di terrorismo».
È insomma in questo momento di tensione che Netanyahu sale al potere.
«La politica
laburista del partito di Rabin, ora guidato da Shimon Peres, non piace più alla maggioranza della popolazione israeliana, che vuole una rotta
più dura, aggressiva. E così arriva al potere Benjamin
Netanyahu, il leader del Likud, nel 1996. Anche Netanyahu, come detto, aveva delle credenziali militari: ha partecipato a varie operazioni speciali con la sua unità d'élite ed è stato un ufficiale decorato. A inizio anni Novanta aveva fatto parte della delegazione israeliana inviata a Madrid e nel 1996 era ormai un abile politico in grado di unificare il fronte degli israeliani scontenti delle concessioni fatte ai palestinesi dal processo di pace di Oslo. Seguace di Jabotinsky, che ai tempi dello Yishuv predicava la necessità di creare «un muro di ferro» fra ebrei e palestinesi – un muro fatto di armi –, Netanyahu ha sempre seguito questa filosofia: garantire la sicurezza con una condotta militare aggressiva. Per questo, il politico ha sempre operato così: non dare spazio ai palestinesi, rafforzare l'ala militare, far slittare il più possibile l'applicazione degli accordi di Oslo (rimandata sine die nel maggio 1999, con la chiusura del periodo utile di cinque anni per i negoziati sulle questioni ancora aperte, come la sovranità palestinese, ndr). Nel frattempo, fra i palestinesi cresce il malcontento e la sfiducia negli accordi. Non solo per le violenze di cui abbiamo già parlato, ma anche a causa dei casi di corruzione riscontrati nell'ANP e dell'immediata imposizione nello scenario politico – a scapito dei movimenti dal basso – dei funzionari dell'OLP di ritorno dall'esilio in Tunisia. Anche nei territori occupati, dunque, la gente non è contenta. Dopo tre anni al governo, Netanyahu finisce al centro di un'inchiesta per corruzione – inchiesta che continua oggi – e perde quindi le elezioni del 1999. Al potere arriva Ehud Barak, anche lui ufficiale militare e laburista come Shimon Peres e Yitzhak Rabin. Sotto il suo governo prosegue la colonizzazione dei territori occupati, con i numeri di cui detto prima: i coloni passano da 200 mila a 400 mila in pochi anni. E ciò, sommato alla situazione di malcontento e sfiducia e al fallimento del vertice di Camp David, porterà alla seconda Intifada».
La pubblicazione più recente: Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023