Giustizia

Cemento finito nel fiume, «In aula le persone sbagliate»

Processo d’appello per l’inquinamento del Vedeggio del 19 gennaio 2017 - Gli avvocati dei quattro imputati hanno chiesto il proscioglimento, criticando un’inchiesta «inutilmente lunga e lacunosa» - La sentenza nelle prossime settimane
Nico Nonella
08.11.2022 18:17

È una vicenda giudiziaria che si trascina da quasi sei anni, tra interrogatori, perizie ed esami tecnici e chimici. Ma l’ultimo capitolo non è ancor astato scritto nonostante, passateci la facile metafora, di acqua sotto i ponti ne sia passata parecchia. E per la difesa dei quattro imputati – condannati in primo grado a pene pecuniarie sospese per il grave inquinamento del Vedeggio del 19 gennaio 2017 a Mezzovico – un aspetto emerge prepotente in tutta questa vicenda: «Le quattro persone, comparse martedì davanti alla Corte di appello e revisione penale – due operai e il capocantiere di una ditta edile e l’ingegnere responsabile della direzione lavori –, non dovrebbero trovarsi in quest’aula».

I decreti impugnati

Che cosa sia successo quel 19 gennaio e che cosa abbia provocato lo sversamento di acqua contaminata da cemento nel fiume è difficile da stabilire con esattezza. Quel che è certo è che il materiale era fuoriuscito da una buca nella quale si stava costruendo un basamento di un pilone dell’alta tensione. In base a quanto emerso durante il dibattimento di oggi, martedì 8 novembre, nello scavo “incriminato” – che per motivi tecnici non aveva potuto essere delimitato con le apposite palancole (barriere isolanti, ndr.) – era stato gettato del cemento nonostante non fosse del tutto privo di acqua e la stessa era in qualche modo finita nel Vedeggio. Alla luce del dano ambientale, il Cantone si era costituito accusatore privato. Poco meno di due anni dopo, il 1. ottobre 2018, il procuratore pubblico Moreno Capella aveva emesso quattro decreti d’accusa per infrazione alla Legge federale sulla protezione delle acque. Nei confronti degli indagati erano state proposte una serie di pene pecuniarie da 20 a 30 aliquote sospese per due anni e multe del valore di oltre mille franchi. Il caso era poi approdato in Pretura penale e, dopo tre giorni di dibattimento, il 26 maggio 2021 gli imputati erano stati condannati per un agire ritenuto negligente.

La catena di comando

Davanti alla Corte di appello, presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will (a latere Rosa Item e Matteo Tavian), i rappresentanti della difesa hanno ribadito che i loro assistiti sono da prosciogliere. «Non è vero che il mio cliente non ha controllato l’asportazione delle acque contaminate. Quel giorno non si trovava in cantiere e aveva dato istruzioni chiare, ossia di procedere con la gettata solo previo pompaggio», ha affermato l’avvocato Giacomo Fazioli, legale del responsabile della direzione lavori. E per quanto riguarda il ruolo di garante dei lavori di quest’ultimo, accertato ne giudizio di primo grado, Fazioli ha argomentato che il suo cliente non può essere ritenuto tale in quanto le altre persone coinvolte non gli erano direttamente subordinate. «Siamo a disagio nell’essere qui, in quest’aula penale. Più che della sentenza (di primo grado, ndr.), siamo delusi per le motivazioni e per un’indagine lunga e approssimativa. Inizialmente abbiamo ricevuto un decreto d’accusa che ci imputava un agire intenzionale, poi modulato in fase dibattimentale. Speriamo ora di poter raccontare una storia più fedele, basata sui fatti, e non una fatta per tenere in piedi un’inchiesta nata storta».

E sul fatto che non ci sia stata alcune «disamina critica» su chi ha operato a monte della “catena di comando” hanno concordato anche i legali degli altri imputati. «Perché un cittadino dovrebbe accettare per sfinimento una condanna che ritiene iniqua?», ha chiosato l’avvocatessa Michela Pedroli, patrocinatrice dei due operai. «I miei assistiti erano in pausa pranzo, a zero gradi, e dopo aver constatato l’anomalia hanno chiamato i colleghi e cercato di fare il possibile. Da parte loro non c’è stata né intenzionalità, né negligenza». Se vi sono state carenze, ha concluso, esse sono da ricercare a monte.

«Mi disorienta il fatto che qui in aula ci siano determinate persone e non altre», le ha fatto eco l’avvocato Paolo Luisoni, difensore del capocantiere. «L’incarto è stato estremamente e inutilmente corposo, ma in primo grado non è stato minimamente analizzato l’organigramma di questo cantiere. Inoltre, molto prima di questo incidente, la ditta aveva segnalato alcune criticità alla progettazione. La risposta è stata “Attenetevi ai piani”, e il mio assistito ha fatto quanto gli è stato ordinato di fare».

La sentenza verrà comunicata alle parti nelle prossime settimane.

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