Giustizia

Gesti potenzialmente letali; ad Arzo fu tentato omicidio

Per il Tribunale federale l’uomo condannato per una serie di violenze nei confronti della moglie in un’occasione la malmenò al punto di non poter non essere consapevole del rischio di ucciderla – Accolto il ricorso del Ministero pubblico
© CdT/Archivio
Lidia Travaini
10.11.2022 06:00

Voleva uccidere la moglie oppure no? Formulato in altre parole, con il suo agire ha accettato che le conseguenze dei suoi gesti potessero essere letali? Per la Corte delle Assise criminali che lo ha giudicato a fine 2020 sì: l’11 aprile 2019 l’uomo si è macchiato del reato di tentato omicidio nei confronti della moglie. Per la Corte di appello e revisione penale (CARP) tuttavia no, il 37.enne è stato sì violento e in più occasioni, ma quel giorno non si è spinto fino al tentato omicidio. La sentenza era quindi stata «ribaltata» e la condanna a 6 anni e 6 mesi ridotta a 3 anni e 6 mesi.

Alla triste vicenda consumatasi in ambito domestico tra le mura di un’abitazione di Arzo si aggiunge un nuovo capitolo. E non sarà l’ultimo. Perché quanto stabilito nei giorni scorsi dal Tribunale federale (TF) dopo un ricorso inoltrato dal Ministero pubblico ticinese contro la Sentenza della CARP farà tornare il caso a Locarno, dove la CARP dovrà pronunciarsi di nuovo. Per la Corte federale quel giorno ad Arzo si consumò un tentato omicidio con dolo eventuale. Con la serie di violenze di cui si è reso protagonista l’uomo nei confronti della moglie l’eventualità del decesso non poteva non essere considerata come una possibile conseguenza. Il fatto che il 37.enne a un certo punto abbia lasciato la presa con cui stringeva il collo alla donna, quando quest’ultima era già priva di sensi, non esclude la volontà omicida come invece stabilito dalla Corte cantonale in seconda istanza.

L’episodio dell’11 aprile 2019 non è l’unico violento per cui l’uomo è stato accusato e poi condannato. I reati di cui è stato ritenuto colpevole sono – oltre al contestato tentato omicidio – di lesioni gravi, lesioni semplici, ripetute vie di fatto, ripetuta minaccia e contravvenzione alla Legge federale sugli stupefacenti (per aver fatto uso di cocaina). Il ricorso del Ministero pubblico (l’inchiesta è stata condotta dalla procuratrice pubblica Petra Canonica Alexakis) si concentra anche su alcuni di questi reati. A riguardo il Tribunale federale scrive tuttavia che «visto l’esito del gravame (sul tentato omicidio, ndr) le ulteriori censure sollevate dal ricorrente, relative ad ipotesi di reato prospettate in via subordinata, non devono essere esaminate».

Dal bagno al salotto

Il TF si sofferma e concentra sul tentato omicidio. Non prima però di aver riportato una descrizione dei fatti accaduti quel giorno nell’abitazione del quartiere mendrisiense. Le violenze iniziarono in bagno, dove la donna fu scaraventata nella vasca, battendo la testa – si legge nella sentenza ricordando quanto ricostruito dalla Corte delle Assise criminali – e dove le fu rovesciato «in testa un secchio contenente acqua e candeggina». I soprusi proseguirono poi in salotto, stanza in cui la donna «era riuscita a fuggire». Il marito lì «l’ha afferrata con la mano destra al collo e l’ha scaraventata sul divano, «dove l’imputato l’ha subito afferrata al collo da tergo con il suo avambraccio destro, stringendolo e dicendole nel contempo: "adesso sì che ti ho preso bene ora non ti mollo più". La stretta ha provocato alla vittima l’annebbiamento della vista e la perdita dei sensi. Mentre la moglie si trovava a terra, l’imputato continuava a colpirla con calci su tutto il corpo, interrompendo il suo agire dopo essersi accorto che di lì a poco il loro figlio sarebbe rientrato a casa da scuola».

Il giudizio della Corte federale si discosta da quello della CARP soprattutto nella valutazione di questa ultima parte delle violenze. L’uomo «ha stretto la vittima al collo fino a farla svenire e perdere i sensi – conclude il TF –, continuando poi a colpirla con calci al torace quand’ella, già malmenata, si trovava a terra inerme. Egli sapeva della pericolosità del suo agire ed era consapevole del rischio di causare la morte della vittima, la cui realizzazione non era da lui più controllabile, ma dipendeva principalmente dal caso, segnatamente ove si consideri che la vittima si trovava già in uno stato di perdita di conoscenza». Di conseguenza «il ricorso deve essere accolto» e la «Corte cantonale dovrà ripronunciarsi»

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