Truffa del vino: chi ridimensiona, chi si chiama fuori
È stato il giorno delle difese, oggi, nell’ambito del processo a cinque persone a cui è imputata a vario titolo la partecipazione a una grossa truffa che ha visto lo smercio in Svizzera, in gran parte Oltralpe di circa settantamila bottiglie di vino contraffatto (circa 30.000 sono tutt’ora sequestrate). Un barbera «buono ma banale» spacciato per vini di cantine più pregiate: un Sito Moresco di Gaja, o dei Valpolicella di Terre dei Pola. Nonché un Tignanello di Antinori che tale non era. E se la procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti, titolare del complesso incarto (l’inchiesta risale al 2018 e per la stessa vicenda è in corso un processo anche in Italia), aveva chiesto pene fra uno e quattro anni di carcere, tre degli imputati professano la propria estraneità al disegno truffaldino, mentre altri due sono (in parte) rei confessi, ma chiedono che il loro ruolo sia ridimensionato rispetto a quanto ricostruito dall’accusa. La sentenza della Corte delle assise criminali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta è attesa per venerdì mattina.
All’origine difficoltà finanziarie
Il tutto ruota attorno a una ditta di import-export di vino di Lugano (oggi in liquidazione) e a colui che ne era il titolare di fatto: un 68.enne del Mendrisiotto con una lunga esperienza lavorativa nel settore. Per lui la procuratrice Rigamonti, dato il ruolo apicale, aveva chiesto la pena più alta: quattro anni da scontare. Una pena «troppo severa che ostacola il reinserimento in società del mio assistito», ha detto l’avvocata Sandra Xavier, che ha chiesto di contenerla in massimo tre anni, parzialmente sospesi: « Forse come mai nella mia carriera ritengo che anche la più tenue delle pene sarebbe un deterrente sufficiente, tanto difficile il periodo già trascorso in carcere è stato per il mio assistito». Il 68.enne - assente in aula per motivi di salute - sarebbe infatti rimasto molto provato dalla vicenda: «Vive con il rimorso per aver tradito la fiducia dei suoi clienti e con la vergogna per aver concluso in modo così disonorevole la sua attività professionale». La vendita delle bottiglie contraffatte ha fruttato circa un milione e mezzo di franchi. Stando a Xavier il 68.enne di primo acchito non sapeva che il vino era falso, ma una volta scoperto la cosa ha per così dire fiutato l’affare: «Sono state le difficoltà economiche a spingerlo a delinquere. Si è trovato in una situazione che non ha saputo gestire, e ha sbagliato».
Chiamate in correità contestate
Il 68.enne avrebbe in particolare avuto un debito con un 62.enne del Luganese, pure imputato (e per cui la pp ha chiesto tre anni). Quest’ultimo avrebbe finanziato l’operazione, ma lui si dichiara innocente. Tale è peraltro stato riconosciuto nel filone italiano dell’inchiesta (ma in merito alla contraffazione del vino, non alla truffa), come più volte sottolineato dall’avvocato Pierluigi Pasi. L’accusa ha però sottolineato che a chiamarlo in causa sono state quattro persone, indipendentemente l’una dall’altra.
Fra questi due napoletani residenti nel Luganese, padre e figlio, che pure avrebbero avuto tensioni finanziarie con lui. Il padre, difeso dall’avvocato Olivier Ferrari (che ha chiesto una pena contenuta in 18 mesi sospesi), riconosce solo di aver messo in contatto alcuni imputati con tale «Schizzetto» che avrebbe poi prodotto le etichette false. Il figlio invece, difeso dall’avvocato Mattia Bordignon, chiede di essere assolto in quanto non emergerebbe che abbia aiutato a compiere la truffa benché ne fosse a conoscenza. Pure innocente, infine, si dichiara l’amministratore «di carta» della ditta di Lugano, un 64.enne della regione: «Era organo societario di facciata: non si intendeva di vini», ha detto l’avvocata Benedetta Noli.