Gino Mäder, un tragico destino senza colpevoli
Un dramma che lascia sbigottiti. Una curva dell’Albula e una maledetta scarpata si sono portate via la giovane vita e i sogni di Gino Mäder. Piange il Tour de Suisse, piangono il ciclismo e il mondo dello sport in generale. Non è normale, non è giusto morire a 26 anni andando in bicicletta. La morte di un atleta professionista lascia sempre attoniti, senza parole: gli sportivi – eroi moderni in cui ognuno di noi si identifica – sono belli, forti, immortali. Ed invece no, non sono immortali: Gino Mäder è solo l’ultimo di una lunga lista di ciclisti deceduti sulla strada. La leggenda dello sport e della «petite reine» in particolare – è brutto da dire in un giorno di infinita tristezza – si nutrono purtroppo anche di drammi. Esistono discipline più pericolose di altre, in cui il rischio di incappare in incidenti dalle conseguenze letali è fisiologicamente elevato: il ciclismo fa parte di queste. Ma nessun atleta ha mai rinunciato alla sua passione e ai suoi desideri di gloria per paura, per timore di farsi male per davvero.
A 26 anni non si pensa alla morte. Non si deve pensare alla morte. Si può essere più o meno coscienti dei rischi che si corrono, agire in maniera più o meno prudente secondo le circostanze, ma non si pensa alla morte. La disgrazia di Mäder è allora totalmente figlia della fatalità, e questo – paradossalmente – la rende ancora più inspiegabile, sconcertante, inaccettabile. Chissà quante volte, in allenamento, il lucernese ha percorso quelle strade. Chissà in quante occasioni ha affrontato senza nessun problema quella curva che, stavolta, gli è risultata fatale. La sfortuna, che può essere terribile, questa volta si è accanita contro di lui. L’italiano Fabio Casartelli, nel 1995, morì 25.enne al Tour de France nella discesa del Colle di Portet d’Aspet: era rimasto vittima di una caduta collettiva, ma fu l’unico a sbattere la testa contro un paracarro. Il filo che separa la vita dalla morte, a volte, è largo solo pochi centimetri. Aveva invece 27 anni Wouter Weylandt, il belga deceduto al Giro d’Italia del 2011 pure lui a seguito di una caduta in un tratto in discesa. Portava il casco, Weylandt, eppure i medici non poterono nulla: troppo devastante, il trauma cranico subito. Potremmo andare avanti a lungo, ripercorrendo il tragico fato di ciclisti e di molti sportivi di tante altre discipline.
Eppure, in momenti come questi, c’è chi cerca immediatamente il colpevole, come se – magari inconsciamente – una presunta responsabilità potesse in parte lenire il dolore e spiegare razionalmente ciò che resta invece inspiegabile. Il campione del mondo Remco Evenpoel e l’ex corridore francese Pierre Rolland, per esempio, hanno subito puntato il dito contro gli organizzatori del Tour de Suisse. Sostengono che la discesa dalla vetta dell’Albula a La Punt non avesse senso, che abbia seriamente messo a repentaglio la sicurezza dei ciclisti. Dovrebbero essere i primi a sapere che le montagne – con le loro estenuanti salite, ma anche con le loro discese – rappresentano l’essenza stessa del ciclismo. E che gli arrivi in pianura dopo la scalata di un colle – quindi dopo una discesa – sono vecchi tanto quanto le corse. L’arrivo a La Punt, tra l’altro, fa parte della tradizione del Tour de Suisse. Un altro belga, il 22.enne Bjorg Lambrecht, morì al Giro di Polonia del 2019 in pianura, cadendo da solo su una strada larga e piatta. Sì, è difficile convincersi che la morte di Mäder sia solo una questione di malasorte, che c’entri solo il destino personale. Quello che nessuno di noi conosce.