L'editoriale

La decisione da prima pagina del «Post»

Perché non schierarsi, in un momento nel quale i media investono oltretutto molto sulla polarizzazione? Difficile sapere dove sta la verità
Paride Pelli
28.10.2024 06:00

Ha destato scalpore, non solo negli Stati Uniti, la decisione del Washington Post, storico quotidiano di area democratica, di non sostenere nessuno dei due candidati in corsa per la Casa Bianca. Detto a chiare lettere, il giornale, in questi ultimi tesissimi giorni di campagna elettorale, dove ogni voto vale oro, non appoggerà né Donald Trump, come prevedibile, né Kamala Harris. Il che è un inedito assoluto, quantomeno negli ultimi 36 anni.

La scelta è arrivata all’ultimo momento, quando l’editoriale di appoggio alla candidata democratica e attuale vice di Joe Biden sembra fosse pronto per andare in stampa. È stato Will Lewis, il CEO del Washington Post, ad agitare le acque per primo. Durante una vivace (eufemismo) riunione di redazione, venerdì scorso, Lewis ha annunciato la pubblicazione di una nota per informare i lettori che il giornale, per questa tornata, non avrebbe fatto endorsement. A stretto giro, si è poi saputo che la decisione era stata meditata e presa dal proprietario stesso, Jeff Bezos, fondatore di Amazon e ai primi posti nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, con i giornalisti che si sono dichiarati «scioccati».

C’è chi ha interpretato la decisione di Bezos come un mero calcolo da uomo d’affari; essendo i sondaggi molto incerti, il fondatore di Amazon avrebbe preferito non rischiare, memore di un precedente errore di valutazione che gli è costato caro. Durante la sua presidenza, infatti, Trump era stato molto critico nei confronti di Bezos e del Washington Post (una antipatia reciproca). Addirittura, in una causa giudiziaria del 2019, Amazon aveva affermato di aver perso un contratto da 10 miliardi di dollari con il Pentagono per le pressioni del «tycoon», che in quel frangente aveva invece sostenuto la candidatura di Microsoft solo «per danneggiare il suo nemico politico».

L’interpretazione, ça va sans dire, non fa una grinza («follow the money», «segui il denaro», recita d’altronde un proverbio storico del giornalismo), ma non è del tutto convincente. Già, se a questo giro avesse appoggiato la Harris, in caso di vittoria di quest’ultima, Bezos ci avrebbe infatti solo guadagnato. Al contrario, in caso di successo di Trump sarebbe cambiato poco o nulla, rispetto alla precedente presidenza. Quindi, perché non schierarsi, in un momento nel quale i media investono oltretutto molto sulla polarizzazione? I casi sono due: o Bezos è certo di una vittoria di Trump, oppure il proprietario del Washington Post ha fatto una scelta giornalistica inedita, fuori dal coro. Una mossa voluta per far sì che l’indipendenza torni a essere l’asset principale del quotidiano. C’è chi la vede in maniera diametralmente opposta, e sostiene invece che si tratti di una ingerenza bella e buona proprio per mettere il bavaglio alla direzione e alla redazione.

Difficile sapere dove sta la verità: ma che una testata storicamente progressista e democratica rinunci per la prima volta dopo anni a stare dalla parte della «sua» candidata, è comunque una notizia da prima pagina. Non solo sul Washington Post.

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