Testi violenti e sessisti: bene l’indignazione, ma non dimentichiamoci Vasco

Fino ad alcuni giorni fa Ivano Monzani era un qualsiasi addetto alla sicurezza. Uno dei tanti volontari che controllavano il concerto di Milano «Love Mi», organizzato Fedez e J-Ax. Oggi è un meme vivente, un eroe virale del Web. La popolarità social gli è piovuta addosso per caso. Merito delle sue espressioni di disapprovazione durante l’esibizione di Paky, il giovane rapper originario di Secondigliano. «Figlio di pu***na, non fin**chio, metto pa**e e pesce insieme quando me la fo**o», canta il giovane nella sua Blaer. Il pubblico lo osanna ondeggiando, e ripete a squarciagola le rime violente e sessiste del cantante. Impalato in mezzo alla folla in delirio c’è Ivano Monzani che con smorfie sconsolate scuote stupito la testa piena di capelli grigi.
Il popolo social diviso a metà
La sua reazione di disappunto è così spontanea da trasformarlo nel giro di poche ore in un idolo del web. «Noi sconsolati come te quando ascoltiamo questa genere di musica!», si legge tra i commenti sui social. E ancora: «Siamo in molti a pensarla come te. Questo è un vero schifo!». Dall’altra parte i sostenitori del rapper: «Sei solo un boomer, ecco perché ti scandalizzi davanti a questi testi». Paky, che è seguitissimo, difende la sua libertà d’espressione. Poco importa se le sue canzoni sono piene di volgarità e violenza.
Le parole sono pietre
La disapprovazione di fronte a questi testi è più che comprensibile. Le parole sono pietre e non bisogna mai banalizzarne troppo il messaggio. Inneggiare allo stupro è gravissimo. Ascoltare rime dove la donna è «Bitch», letteralmente «cagna», fanno rivoltare lo stomaco a chi dalla fine dello scorso secolo e si è battuto per i diritti delle donne.
La tr**ia di «Colpa d’Alfredo»
Tuttavia occorre riflettere prima di giudicare in modo affrettato. Pensiamo a Vasco Rossi: oggi il rocker nato a Zocca è maestro indiscusso della musica italiana, amato e idolatrato da almeno due generazioni di fan che lo seguono in tutte le sue tournée. Nel 2005 è stato persino insignito di una laurea honoris Causa in Scienze della Comunicazione dall’ Università IULM di Milano. Ma neppure Vasco non scherzava con i testi delle sue canzoni. Quando nel 1980 uscì il suo «Colpa d’Alfredo» l’Italia buonista e parruccona fece un salto sulla sedia. Il brano lo conosciamo tutti: parla di una «tr**oia» che va «a casa col ne**ro», con «quell’africano che non parla neanche bene l’italiano ma si vede che si fa capire bene quando vuole».
Volgarità mai sentite prima d’allora in una canzone. Scattarono le censure, sia del brano sia della copertina del disco. Blasco era un cane sciolto e la sua musica un inno alle droghe e ad una «vita spericolata». Voleva scioccare raccontando gli anni ’80 dal suo punto di vista e ci riuscì. La sua era una generazione né di santi né di eroi che faceva ribrezzo a chi aveva più di trent’anni. Proprio come i testi dei vari rapper come Paky.
Oggi più nessuno si permette di bollare Vasco come un razzista o un misogeno violento. Forse perché quelle parole sanguigne con gli anni sono diventate più leggere e non incutono più paura? Eppure quella sua «Tr**ia» degli anni ’80, cantata nei concerti anche dalle femministe più accanite, non è così distante dalle «Bitch» di Paky.
Tout va bien madame la Marquise? Non proprio
Questo non significa che tutto debba essere perdonato o cinicamente permesso. Nella musica rap c’è realmente un grosso problema di valori. Le canzoni trasudano di sessismo, violenza e consumismo esasperato. La soluzione è forse quella suggerita da Kento in una intervista al sito musicale rockit.it e passa dall’educazione del pubblico fin da giovanissimo. «Non serve a nulla censurare; occorre invece istruire la gente all’ascolto critico e al pensiero indipendente» ha detto il rapper calabrese.
I ragazzi possono ascoltare canzoni colme di scemenze, ma quando chiudono la porta di casa dietro le loro spalle devono essere in grado di non fare le stupidaggini ascoltate. Un conto è una canzone, un altro è la vita di tutti giorni. Anche se secondo Kenzo «saremmo stupidi o ciechi a non accorgerci che questi atteggiamenti non sono altro che il riflesso della nostra società». Insomma i rapper non farebbero altro che musicare la violenza della società attuale.
E allora: è nato prima l’uovo o prima la gallina? Sono i testi dei rapper a inoculare violenza nella società, oppure è la violenza della società che impregna i testi dei rapper?
Probabilmente se Vasco fosse nato in questo millennio, canterebbe anche lui la rabbia cieca delle gang di quartiere. Una vita spericolata 2.0. Per buona pace dei vari Ivano Monzani.