Giorgio Contini: «Sono figlio di un pugile, conosco l'arte della resilienza»
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Giorgio Contini è un libro aperto. Appassionante in ogni suo capitolo. Dopo averne scritto uno speciale quest’estate, a Euro 2024 e al fianco del ct rossocrociato Murat Yakin, il tecnico 51.enne ha voltato pagina, dando vita a una nuova storia alla testa dello Young Boys. A ridosso del match contro il Lugano capolista, lo abbiamo intervistato per capire come si sta sviluppando la trama.
YB e Lugano: entrambe – nel 2025 – hanno totalizzato 11 punti, miglior bottino in Super League alla pari del Basilea. Al Wankdorf si affrontano le formazioni più in forma o i risultati dello scorso weekend suggeriscono altro?
«Per quanto ci riguarda suggeriscono che non siamo ancora così stabili. Ma i progressi, in ogni reparto e soprattutto in termini di fiducia, non mancano. Per tacere dell’ottimo inserimento dei nuovi acquisti. Detto ciò, domenica affrontiamo un avversario che possiede grandi qualità. E gli ultimi risultati in campionato non contano più. Chi vuole spuntarla, semplicemente, dovrà portare in campo una prestazione quasi perfetta».
Ci permettiamo d’insistere sul precedente turno. Dopo tre successi consecutivi, la sua squadra è caduta sul campo del Winterthur, fanalino di coda. Incidente di percorso o, forse, piccolo rilassamento per aver creduto che la rincorsa alle prime fosse ormai lanciata?
«In realtà si tratta di una partita che avevamo iniziato benissimo, con la giusta energia e il corretto atteggiamento. Non essere riusciti a segnare subito, purtroppo, ci ha tolto la necessaria pazienza. Abbiamo voluto forzare eccessivamente l’andamento della gara e il Winterthur è stato bravo a farci male in contropiede, intaccando le consapevolezze che avevamo accumulato sino a lì. Insomma, il nostro processo di crescita, dopo 6 mesi difficili, è ancora in atto».
Quando è stato nominato, a fine 2024, lo Young Boys era un paziente moribondo. Quasi due mesi più tardi qual è lo stato di salute del gruppo?
«Si è proceduto a diversi aggiustamenti importanti. E non parlo di questioni tecniche o tattiche, ma di risorse mentali. Per molti giocatori che da tempo vestono o vestivano la maglia dello Young Boys, e dunque poco abituati a convivere con una simile crisi di risultati, scaricare la colpa su altri era diventata una sorta di via d’uscita. Stava quindi venendo meno una corretta assunzione di responsabilità. Con l’assunzione del sottoscritto e l’arrivo di diversi giocatori, a cui non interessa il passato ma solo fare bene, è invece stato possibile fornire nuovi impulsi. E, sì, lo spirito dello spogliatoio è cambiato. Anche elementi della vecchia guardia, come Lauper, Ugrinic e Itten, sono stati trascinati da una dinamica infine positiva. Il che, si badi bene, non significa ancora essere guariti. La strada per riuscirci è però stata imboccata».
A Berna sono arrivati giocatori importanti – Fassnacht, Bedia, Raveloson – e hanno salutato nomi altrettanto significativi, come Elia, Ganvoula e Niasse. Quanto ha potuto incidere Giorgio Contini a livello di mercato invernale? E in che misura, invece, ha dovuto prendere atto di questi trasferimenti?
«Abbiamo avuto modo di discutere e valutare alcune posizioni e decisioni già prima della mia firma. D’altronde non si trattava di esaminare solo il girone d’andata, ma anche parabole individuali iniziate molto prima e giunte oramai al tramonto. I movimenti sul mercato, in questo senso, hanno seguito una strategia condivisa e coerente».
Dicevamo dello Young Boys che, dopo essersi rialzato, ha subito un colpo inaspettato dal Winterthur. Lei è figlio di un pugile, già campione svizzero per altro. Che cosa le ha insegnato la boxe, e magari le insegna tutt’ora, per non vacillare ai bordi di un campo da calcio?
«Non smette d’insegnarmi quanto sia importante mantenere alta la guardia. Sempre. E pure quanto conti l’umiltà. Perché è un attimo prendersi un bel cazzotto e, sì, dopo tre vittorie che sembravano averci risollevato ne sappiamo qualcosa. L’importante, comunque, è non arrendersi. Rimettersi subito in piedi. Come allenatore, per esempio, sono cosciente che di ganci in pieno volto ne subirò ancora, sia in termini di risultati, sia nei vari ambiti della mia professione. Ma grazie all’esperienza accumulata negli ultimi anni, per fortuna, ho imparato a incassare i colpi anche più duri. Coltivando l’arte della resilienza e - grazie all’ascolto e al confronto - anticipando la direzione del vento».
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Che percentuali ha il Lugano di vincere il titolo? E quante ne ha il suo Young Boys?
«Sicuramente le probabilità che i bianconeri diventino campioni sono molto più alte rispetto alle nostre. Lo sviluppo del Lugano è enorme, anche se ora - a Cornaredo - bisognerà dimostrare di saper gestire e assumere pienamente il ruolo di leader. Ebbene, noi non siamo ancora lì, dove vorremmo essere. Perciò, per il momento, preferiamo vestire i panni dei rompiscatole della Super League, cercando di agguantare una concorrente alla volta e di chiudere nei primi sei la stagione regolare. Senza fare il passo più lungo della gamba».
A proposito di campioni svizzeri. Sono passati 25 anni dal titolo vinto dal San Gallo, l’unico della sua carriera. Ma un terzetto offensivo più forte di Amoah-Gane-Contini - 43 gol in una stagione - lo ha più visto in Svizzera?
«Beh, mi viene in mente il trio terribile dello Young Boys composto da Hoarau, Nsame e Assalé (40 gol in stagione, in effetti... ndr.). O ancora, seppur in Challenge League, la pericolosità di Zeqiri, Turkes e Ndoye (44 reti, ndr.). Insomma, qualche caso c’è stato, anche se riunire tre elementi così prolifici e in grado di fare la differenza è effettivamente complicato».
Ecco, a proposito: il Lugano rischia di essere penalizzato da questa variabile nella lotta per il titolo? Dopo tutto, in casa bianconera non esiste una gerarchia chiara tra Koutsias, Vladi e Przybylko e pure le rispettive statistiche - per ora - non raccontano di grandi numeri.
«A parte che i campionati li vincono le difese. E il Lugano, da questo punto di vista, è messo bene. Poi, certo, disporre di due attaccanti capaci di firmare 15-20 gol a testa renderebbe la missione molto più semplice. È anche una questione di strategia del club, che nel caso dei bianconeri appare orientata su giovani dal potenziale interessante».
Mattia Croci-Torti, dopo la bella vittoria di sabato contro il Lucerna, ha voluto sottolineare un aspetto. E cioè che gli avversari del Lugano, oramai, preferiscono adattare il proprio gioco e atteggiamento in campo, privilegiando la prudenza. Anche lo Young Boys, domenica, lascerà che a condurre le danze siano i bianconeri?
«Non dimentichiamo che si gioca al Wankdorf. Tradotto: l’atteggiamento dello Young Boys non sarà remissivo. Il grande possesso palla e le qualità del Lugano, tuttavia, implicano inevitabilmente una strategia ad hoc. Sul piano difensivo bisognerà lavorare più del solito e per imporsi non sarà sufficiente un 4-4-2 all’arrembaggio, fatto solo di duelli e seconde palle».
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Giorno più, giorno meno, un anno fa veniva nominato assistente di Murat Yakin, nello staff tecnico della Nazionale. Se ripensa a quella scelta e a dove si trova ora – capoallenatore di un grande club svizzero – tutto è andato esattamente secondo i piani?
«Nel calcio, invero, i piani non esistono. Nel mio caso, ad ogni modo, credo sia importante fare un passo indietro, ritornando sulla decisione di lasciare il Grasshopper, quando accettai di restare senza un incarico. Quei mesi mi hanno aiutato a riordinare idee e ambizioni. La scelta di affiancare Yakin all’Europeo, per contro, si è rivelata fondamentale per fare lo step successivo. E cioè dimostrare all’esterno e convincere pure me stesso di possedere la necessaria personalità per operare ad altissimo livello. I miei metodi e la mia empatia, in effetti, hanno fatto presa e - di riflesso - dato valore al sottoscritto. Che poi si sia aperta una porta allo Young Boys, beh, è anche una questione di fortuna. Banalmente, serviva la partenza di un collega. In questo mondo, comunque, nessuno regala niente a nessuno. E penso di essermi meritato questo posto».
Intanto non si conosce ancore il nome del suo sostituto, o i nomi. Lo sa che ha cacciato nei pasticci Murat e l’ASF?
«Non pensavo potesse essere così difficile sostituirmi (ride, ndr.). Battute a parte, è probabilmente cambiata la strategia di Murat e dell’ASF, ora decisi a puntare su due o tre assistenti. Non credo quindi di averli messi nei guai. Calendario e impegni alla mano, c’è sufficiente tempo per permettere a Yakin di operare nelle migliori condizioni».
Lei ha origini italiane, è tifoso del Milan e ha vissuto – anche se per due sole partite – la «nuova» Champions League. Come giudica le eliminazioni – per certi versi clamorose – di rossoneri, Atalanta e Juventus?
«Non le ricondurrei a una causa univoca o, allargando il discorso, alla crisi del calcio italiano. L’Atalanta ha smarrito il fil rouge con il rigore che ha deciso la sfida d’andata a favore del Bruges. Martedì sera, poi, hanno pagato a caro prezzo ogni ripartenza dei belgi, situazione di gioco nel quale di solito eccellono. Il Milan, beh, è stato tradito da Theo Hernandez e ha perso una sfida che stava dominando. La Juve, infine, è crollata sul piano fisico, peccando anche sul piano della strategia. Ecco, se c’è un minimo comune denominatore risiede nella preparazione superficiale delle gare. Tutte e tre erano troppo sicure di superare il turno».