Olivier Biaggi: «Nel Lugano rivedo la mano di Cao, ma dell'Yverdon non mi fido»
Olivier Biaggi, oggi, difende con sicurezza i personali interessi in campo immobiliare. A cavallo degli anni Duemila, invece, pochi giocatori svizzeri erano in grado di arginare gli attaccanti avversari con la sua efficacia e la sua ruvidità. Il Lugano, non a caso, lo prelevò dall’Yverdon per costruire una squadra titolo. L’impresa venne solo sfiorata, ma a poche ore dagli ottavi di Coppa tra vodesi e bianconeri - e con gli uomini del Crus ai vertici della Super League - abbiamo voluto riavvolgere il nastro.
Sono trascorsi più di vent’anni da quella cavalcata, frustrata solo all’ultima curva del campionato. Era la stagione 2000-01 e Olivier Biaggi non impiega molto per avvicinare due epoche. Per unire il girone per il titolo di allora e le ambizioni del presente. «Seguire il Lugano, negli ultimi anni, è diventato un piacere. Lo staff tecnico, guidato da Mattia Croci-Torti, sta facendo un grande lavoro. Ma rivedo anche la mano di Cao Ortelli, ai miei tempi assistente di Roberto Morinini. Mi spiego: quando osservo i bianconeri giocare, percepisco l’essenza del mister e del suo vice. Un mix tra fuoco e ghiaccio. Tra agonismo e ragione. Tra verticalità e qualità nel giro palla». Per Biaggi, volendo riassumere, il Lugano riesce a unire il bel calcio alle emozioni. Anche se qualche cortocircuito, di tanto in tanto, si manifesta.
Insidie di Coppa
Steffen e compagni, d’altronde, si apprestano ad affrontare l’Yverdon sulla scia della brutta sconfitta rimediata allo Stade de Genève. E Biaggi, soppesando l’ottavo di finale di Coppa in programma questa sera allo Stade Municipal, non si fida. «Per l’Yverdon ogni match, pure quelli in campionato, è un match di Coppa. Il tecnico, Alessandro Mangiarratti, è costretto a operare sotto costante stress. Perché dalla dirigenza e della proprietà americana giungono impulsi contrastanti. Parliamo di una rosa composta da 30 calciatori e di un viavai continuo di profili. E, quindi, di una perenne necessità di reinventarsi. A maggior ragione se - come accaduto sovente sin qui - le gare in trasferta sono state completamente sbagliate».
In realtà l’Yverdon non vince da cinque incontri, tre in casa e due fuori. Non solo. L’ultimo successo a domicilio, datato 20 ottobre, era stato ottenuto proprio contro i bianconeri. «Ricordiamoci che il Municipal è un campo di provincia, le cui condizioni peggiorano con l’avvicinarsi dell’inverno» sottolinea Biaggi. «Insomma, la gara si svilupperà su un terreno ostico, anche per i tanti giocatori dai piedi buoni a disposizione di Croci-Torti. Sì, ad attendere il Lugano è una sfida pericolosa. Pure sul piano mentale. Il pesante rovescio contro il Servette, tuttavia, potrebbe aver scosso in positivo lo spogliatoio».
«Per fortuna non c’era il VAR»
Biaggi tiene comunque a puntualizzare: «I bianconeri sono tre volte più forti dell’avversario». Sia sul terreno da gioco, sia sul piano societario. «A Cornaredo c’è una visione chiara. E ciò si traduce in una costruzione oculata della rosa. A Yverdon, ripeto, si ha più l’impressione di una squadra quotata in borsa, con i trasferimenti in entrata e in uscita dettati unicamente dall’oscillazione dei prezzi». Biaggi abbracciò il club vodese nell’estate del 1999, dopo aver conquistato due titoli e una Coppa con il Sion e aver altresì indossato le maglie di Losanna e Servette. «L’allenatore era Lucien Favre, una figura capace di trasformare un signor nessuno in un calciatore di grande prospettiva». A lasciare la Romandia per approdare in Ticino, due anni più tardi, non fu in effetti il solo Biaggi. «Con l’Yverdon, da neopromossi, avevamo disputato un grande campionato, persino migliore di quello del Lugano». C’erano bomber Leandro, Enilton e un giovane Tchouga. «E c’era Ludovic Magnin in rampa di lancio, su cui il club bianconero mise le mani ancor prima che sul sottoscritto».
Per l’ex difensore, l’avventura a Cornaredo sconfinò in un sogno. Un sogno interrotto sul più bello. «Ma oggi, nella squadra di Croci-Torti scorgo la stessa maturità di allora. È un gruppo che non ha mai smesso di progredire e che nell’esperienza europea ha trovato un’ulteriore fonte di consapevolezze. Per tacere dei pilastri che compongono la formazione». Già. Meglio la coppia Zagorcic-Biaggi o Papadopoulos-Hajdari? Olivier ride. «Il Lugano dispone di elementi perfetti per interpretare e offrire un calcio di tipo moderno. Mettiamola così: ai nostri tempi non c’era il VAR e alcune questioni si potevano regolare con maggiore discrezione». Curioso. Perché l’ultima volta che i bianconeri lo sfidarono da rivale, nell’ottobre del 1999, Biaggi venne espulso per una brutta reazione. «Nei confronti di Joël Magnin, certo, lo ricordo bene» afferma divertito il diretto interessato.
Dal Tourbillon a Hollywood
Dalla stagione successiva, per l’appunto, Biaggi avrebbe condiviso lo spogliatoio con l’attuale tecnico dello Young Boys. Così come aveva o avrebbe fatto con Didier Tholot (allenatore del Sion), Fabio Celestini (Basilea) e il citato Ludovic Magnin (Losanna). «Senza dimenticare il ds del Servette René Weiler e forse pure Mangiarratti, con cui credo di essermi allenato a Bellinzona quando mi ritrovai senza squadra nel 2003». La metà delle panchine della Super League, insomma. Un campionato che vede le compagini romande tenere testa - e persino prevalere - sulla concorrenza confederata. «In effetti è un buon periodo per le realtà della Svizzera francese» conferma Biaggi. «C’è la tranquillità necessaria per costruire e consolidare dei gruppi di calciatori interessanti. E se penso al Sion è quasi un paradosso». Diverso, dicevamo, il discorso sviluppato a Yverdon. «Dove arrivare quinti o noni non è poi così differente; l’importante è valorizzare elementi perlopiù sconosciuti».
Figlio della città, Olivier Biaggi continua a recarsi al Tourbillon, stadio che lo ha plasmato e che gli ha regalato le gioie più importanti in carriera. «Ora nel Sion gioca mio figlio. Ma non ha seguito le orme di papà, è un’ala offensiva». E a proposito di apripista. Al tramonto del suo percorso da professionista, nel 2003, Biaggi decise di recarsi negli Stati Uniti. A Los Angeles. «Creammo l’Hollywood United, un club composto da vecchie glorie del calcio, attori e cantanti. Le nostre esibizioni erano richieste in tutto il Paese e in questo contesto ho compreso l’essenza del soccer. Uno sport artificiale, fatto soprattutto di business e divertimento. Nella MLS, al contrario, mancano le radici e la passione. Prendete Xherdan Shaqiri? Per tornare grande ha dovuto riappropriarsi delle emozioni della sua Basilea».