Con la retromarcia di Henderson ecco le prime crepe d'Arabia

Parliamo di un solo caso. E però di un caso eclatante. Jordan Henderson, infatti, è un calciatore che polarizza. Nel bene e nel male. La sua battaglia a favore della comunità LGBTQ+, da giocatore di punta del Liverpool e della nazionale inglese, lo aveva reso un po’ attivista, un po’ influencer. Poi, come a tanti colleghi meno impegnati, è arrivata la chiamata della Saudi Pro League. E con essa la generosissima offerta dell’Al-Ettifaq. Le oltre 200.000 sterline settimanali per tre stagioni messe sul piatto hanno esercitato un potere più forte delle nobili intenzioni. Portando a relativizzare, tra gli altri, il fatto che in Arabia Saudita l’omosessualità sia considerata illegale e dunque repressa. Già, tutto molto venale e - in fondo - per nulla sorprendente. Peccato che Henderson abbia impiegato soli 6 mesi per rinnegare le sue scelte. Ancora una volta. Il suo desiderio di lasciare Dammam per rientrare in Europa è stato svelato dal negli scorsi giorni. E, va da sé, ha infiammato il dibattito su due piani. Da un lato quello individuale, con diversi media d’oltremanica che non hanno perso tempo a evidenziare l’ipocrisia dell’ex capitano (con fascia arcobaleno) dei Reds e a calcolarne le rogne fiscali in caso di rientro anticipato nel Regno Unito. Dall’altro a finire sotto i riflettori è stata proprio la Saudi Pro League, per cui ci si chiede se la decadenza e una sorta di ora del giudizio siano arrivate anzitempo.
Scarso appeal
Elementi critici, d’altronde, non ne mancano. E non a caso le riflessioni di Henderson interesserebbero pure altri campioni convinti a lasciare il Vecchio Continente, come Roberto Firmino e - forse - Karim Benzema. Tolti alcuni match, di norma quelli disputati dai club affiliati al fondo sovrano PIF (Al Hilal, Al Nassr, Al Ittihad e Al Ahli), gli stadi sauditi hanno registrato affluenze mediocri. Per non dire imbarazzanti. Nel caso di Henderson, inoltre, i 38 punti di scarto tra l’Al-Ettifaq e il leader del campionato non aiutano. Nel caso del 33.enne si parla non a caso di assenza di stimoli sportivi e di mancata realizzazione in campo. Sentimenti negativi e frustranti che il maxi-stipendio percepito non sarebbero più in grado di anestetizzare. Ma le aspirazioni infrante e le mancate promesse con le quali ha dovuto fare i conti la maggioranza delle squadre si sono altresì tradotte in cambi di allenatori in serie. Oltre che in un’inevitabile frenata degli investimenti del regime, a fronte delle centinaia di milioni iniettati nelle principali società calcistiche affinché concretizzassero la visione della famiglia reale.
Privazioni insostenibili
Le soffocanti condizioni di vita in loco - clima compreso - rischiano di fare il resto. Sì, perché militare nella Saudi Pro League significa anche accettare numerosi privazioni. Di qui la decisione presa da mogli, compagne e figli di vivere - più liberamente - nei vicini Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Il rispetto della cultura saudita, o se preferite la convivenza con l’oppressione che ne deriva soprattutto per le donne, richiede un enorme sacrificio. Senza dimenticare una libertà di espressione limitata ai minimi termini. Non sorprende, insomma, che Henderson abbia rinunciato immediatamente alla fascia arcobaleno per non indispettire chi lo ospitava e pagava profumatamente. Adattarsi in un primo momento, tuttavia, non vuol dire riuscirci per l’intera durata del proprio contratto. Anzi. E le attuali voci di un possibile, più ampio esodo sono lì a dimostrarlo.
Come la Cina nel 2016?
Resta da capire quanto la fragilità del sistema tolga veramente il sonno a chi sta al potere. A maggior ragione dopo che uno dei grandi obiettivi della globalizzazione saudita - in termini di visibilità e reputazione - è già stato centrato. Parliamo naturalmente del Mondiale del 2034, che la FIFA non ha esitato a cucire su misura a Riad. La scommessa anticipata di Cristiano Ronaldo, detto altrimenti, ha creato un varco nel quale si sono fiondate diverse altre stelle decadenti. Il Telegraph, ad ogni modo, ritiene tutt’ora lecito dubitare dell’esistenza di una nuova frontiera del calcio. «Se fosse semplicemente una nuova Cina?» ha interrogato il noto media britannico, alludendo alla parabola della Chinese Super League. Nata nel 2016 e sgonfiatasi nel giro di poche stagioni, insieme a tutti (o quasi) i suoi colpi di mercato.