Calcio

La terza Europa del «prof»: «La prima mi costò una falange»

Nicholas Townsend non è solo il coordinatore della preparazione atletica in casa FC Lugano: un po' agitatore, un po' psicologo, lo abbiamo incontrato a ridosso dell'esordio bianconero in Conference League
Nicholas Townsend durante i festeggiamenti per la vittoria della Coppa Svizzera, il 15 maggio del 2022. ©CdT/Gabriele Putzu
Massimo Solari
20.09.2023 06:00

È arrivato a Cornaredo nel 2014. Da allora fa parte dell’inventario del club. Solo Mattia Bottani e Jonathan Sabbatini sono bianconeri da più tempo. Lui è Nicholas Townsend, per tutti «il prof». E all’alba di una nuova avventura europea - la terza per il diretto interessato - abbiamo voluto scavare insieme nella mente e nel corpo dell’FC Lugano.

Il primo avversario in Conference League, d’altronde, ha costruito i suoi recenti successi proprio sul benessere psicofisico. Merito di Bjorn Mannsverk, ex pilota delle forze aeree norvegesi e dal 2017 «mental coach» del Bodø/Glimt. Il suo mantra? «Concentrarsi sui risultati genera molto stress; focalizzarsi sulle prestazioni - invece - è un processo davvero creativo». Lo stile di gioco temerario e aperto della formazione guidata da Kjetil Knutsen, leggiamo da più parti, deriverebbe proprio dalla serenità mentale dei suoi protagonisti, invitati regolarmente a riflettere su emozioni ed esperienze, ma anche a meditare a margine degli allenamenti. «Sì, ho letto qualcosa di Mannsverk» ci dice Townsend a poche ore dalla trasferta di Zurigo, dove domani Lugano e Bodø si contenderanno i primi tre punti del gruppo D. «E, di principio, condivido anche la sua filosofia» aggiunge. Prima di piazzare qualche asterisco e fornire - con grande trasporto - la personale visione della materia.

«Capto le cose nell'aria e poi agisco»

«Credo molto nella distribuzione delle energie. È molto semplice: i giocatori più forti sono quelli in grado di concentrarsi unicamente sul presente, cancellando dalla mente gli eventuali errori del passato. In questo, lo ripeto, Mannsverk ha ragione. Peccato che nel calcio moderno il tempo a disposizione per far risultato sia viepiù esiguo. E, così, pure i margini per dare importanza alle sole prestazioni. A contare, alla fine, sono sempre le vittorie». Già. E il Lugano affronta la Conference League sapendo che i 3 punti si concederanno tutto fuorché facilmente. Di più: prima del passaggio agli ottavi di Coppa Svizzera ai danni del piccolo Lancy, a scandire le settimane bianconere sono state tre sconfitte consecutive. «L’atteggiamento e il clima - garantisce Townsend - rimangono positivi. Cosa che per altro ritengo fondamentale per ambire a determinati traguardi sul medio termine. Certo, il successo in Coppa non è stato brillante, non giriamoci attorno. E ho visto giocatori che hanno portato il match in spogliatoio. In questi casi, beh, il primo rimedio che amo mettere in pratica è la musica a palla nello stereo». Parole e medicina preventiva del «prof». Un’istituzione a Cornaredo. «Mi chiamano così da sempre. Anche fuori dal campo, vista la cattedra al Liceo scientifico di Como. Nel frattempo la società si è avvalsa di diversi altri specialisti per quanto concerne la preparazione atletica; l’esclusiva - se vogliamo - è però rimasta al sottoscritto» afferma ridendo. A gennaio saranno dieci anni in bianconero. Tanti. Troppi? «Sono tanti, è vero, ma non sono né stufo, né stanco. Amo il mio lavoro, l’adrenalina che solo il rettangolo verde sa regalare». E di episodi adrenalici che legano Townsend al Lugano, in effetti, se ne potrebbero raccontare a decine. Il prof ne cita un paio. «Il derby con il Chiasso nel maggio del 2015, vinto 4-1 e decisivo per la promozione in Super League. Ricordo bene l’esultanza davanti alla panchina rossoblù dell’allora viceallenatore Mattia Croci-Torti. Mi volevano menare». La prima qualificazione all’Europa League, acciuffata al termine della stagione 2016-17 grazie al pareggio in extremis del GC a Sion, aveva invece portato con sé sette punti di sutura a un dito della mano. «Dopo averlo sollevato per la gioia, il vecchio tavolo in legno dello spogliatoio dei giocatori mi era ricaduto addosso, aprendomi la falange superiore». Ahia. «Forse - e sottolineo forse - il trascorrere degli anni mi ha reso più maturo. Dipende molto dalle giornate. Sono uno che capta le cose nell’aria e, se c’è qualcosa che non va, agisce in modo molto diretto. Perché, a torto o a ragione, ritiene giusto intervenire».

Con alcuni giocatori uso il bazooka, con altri serve maggiore sensibilità

Prendere o lasciare, Nicholas Townsend è anche questo. Soprattutto, è molto per la squadra. «Ogni mia azione all’interno del gruppo, tengo a evidenziarlo, non è fine a se stessa. No, è figlia di un ragionamento e mira a una reazione. A una scossa». Quella di «coordinatore della preparazione atletica», in tal senso, è un’etichetta formale che potrebbe andare stretta al prof. «I fattori emozionali e mentali - e l’ho sempre pensato - sono cruciali in una compagine di alto livello, nella quale non devono ovviamente mancare buoni giocatori e collaborazione fra i reparti. Per colpire e lavorare su queste variabili è necessario capire chi hai davanti, conoscere il vissuto di ogni calciatore. A Lugano c’è un mix incredibile: a volte uso il bazooka, altre la sensibilità».

«Zan si sta riprendendo»

La comprensione del soggetto, spiega Townsend, favorisce il rispetto e suggerisce i limiti da non oltrepassare. «Poi capita di andare oltre ed entrare in conflitto con le persone. A me è capitato. Per fare questo lavoro devi però saper affrontare lo scontro». Ma lo spogliatoio del Lugano è conflittuale? «No, non lo è» assicura Townsend. «E ciò nonostante negli ultimi due anni i cambiamenti siano stati parecchi, a partire dall’innesto di molti giovani». Eppure, notiamo, l’ultimo periodo potrebbe aver alimentato qualche dubbio. Persino del malumore. Sia nel collettivo, sia nei singoli. Prendiamo il caso di Celar. «Prendiamolo, okay» accetta il prof. «Ho grande stima di Zan. Perché non dimentico - e i tifosi non dovrebbero farlo - quello che ha fatto per il club: dalle reti decisive in Coppa ai 16 gol della scorsa stagione. Che avesse altre aspettative e volesse partire, è un dato di fatto. Così come sono innegabili le difficoltà incontrate nell’ultimo mese e mezzo: mentalmente era a terra». E quindi? «Ho parlato con il giocatore cinque giorni fa e l’ho fatto in modo molto schietto. Gli ho detto che nei playoff di Europa League era stato un fantasma. E che per ripartire esisteva un’unica soluzione: resettare tutto, liberare la mente da quello che non è stato. Riallacciandomi al discorso fatto in precedenza, l’ho esortato a ragionare sul presente». Domenica, guarda caso, è arrivata la doppietta contro il Lancy. «Ma al di là di quei gol, sono il comportamento e i piccoli gesti al campo che mi portano ad affermare che si sta riprendendo. Bastano un sorriso e la testa alta al momento di salutarsi» rileva Townsend, ponendo l’accento sul minimo comun denominatore dei giocatori di calcio: «Il loro essere caratteriali, umorali anche. I confini fra la negatività e la positività sono dunque molto sottili. E però i percorsi che portano al meglio non sono sempre immediati, anzi».

La situazione di Celar? Sono stato schietto e l’ho esortato a concentrarsi solo sul presente

Se il «Crus» diventa il «Cru»

Mentre parla, il prof non manca di fare esempi puntuali nello spogliatoio bianconero. Cita la rinascita di «Nacho» Aliseda e, ora, la sua nuova ripartenza. Menziona, a proposito di concentrazione sul presente, la grande autostima di Albian Hajdari. O ancora la spensieratezza che, puntualmente, va di pari passo con l’estro di Renato Steffen e Mattia Bottani. Nel tratteggiare le sfumature del suo operato, poi, Townsend invade inevitabilmente il territorio del suo superiore diretto. «Nonché allenatore con cui - a fronte di cinque campionati condivisi - ho legato di più lungo questo decennio» indica, alludendo a Mattia Croci-Torti. E chiamandolo «Cru», non «Crus». «Su molte cose la pensiamo allo stesso modo. E fra queste c’è sicuramente la componente motivazionale e la strategia da utilizzare per incidere sulla testa di un giocatore». Fra i due, apprendiamo, si è consumato un solo vero litigio. «Ai tempi di Celestini allenatore e solo perché il sottoscritto voleva allenarsi sul campo B1, mentre Mattia - dopo le forti piogge - intendeva preservarlo. Abbiamo urlato. Tanto. Ma la questione è rientrata in una ventina di minuti».

Con Croci-Torti abbiamo litigato una sola volta: vediamo molte cose allo stesso modo

Oggi, appunto, la simbiosi appare totale. E l’impressione (ma è più una certezza) è che il destino sportivo del tecnico determinerà pure quello professionale del professore. Townsend, va da sé, preferisce rimanere aggrappato al presente. E così la discussione torna alla Conference League, terza competizione continentale che vivrà al fianco di Croci-Torti sulla panchina del Lugano. «Se la gestiremo in modo differente rispetto al 2017 e al 2019? Dal punto di vista atletico e del recupero, con partite il giovedì e la domenica, l’approccio rimarrà lo stesso» precisa il nostro interlocutore. «La fisiologia non è cambiata negli anni. Poi, naturalmente, entrano in gioco variabili come il turnover, la protezione di ruoli fondamentali e la fortuna, più o meno generosa con gli infortuni». Sarà anche una questione di stanchezza. Di nervi. I bianconeri, appunto, ci sono già passati. E non è sempre andata benissimo. Towsend entra una volta di più nella testa del Lugano: «Le responsabilità aumentano, tutti si aspettano molto: la leggerezza mentale - da non confondere con superficialità - può lenire la fatica. Partire bene contro il Bodø e confermarsi domenica a Berna con l’YB, inoltre, innescherebbe un circolo positivo».

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