San Siro con il fiato sospeso: in due notti ci si gioca la gloria

Uno spettacolo. In due atti e alla Scala del calcio. Emozioni, adrenalina e in palio la gloria. Certo, la finalissima di Champions League. Ma pure il primato cittadino. Per chissà quanti altri anni. Il derby fra Milan e Inter è tutto questo. Ecco perché, fra una settimana e con un vincitore definito, c’è chi non si darà pace. E chi, al contrario, dovrà tenere a bada l’euforia. Rino Gattuso, in occasione del precedente iconico del 2003, sintetizzò alla perfezione la portata della sfida. Sportiva e fisica. «Divertirsi in campo? Non scherziamo, io non mi diverto per nulla e non vedo l’ora che questa semifinale finisca. Ho il mal di stomaco da tre giorni. Qui c’è poco da stare allegri, c’è da soffrire e combattere». Anche solo per strappare un 1-1 «fuori casa», decisivo - grazie al gol in trasferta e a fronte dello zero a zero dell’andata - ai fini dell’apoteosi rossonera.
«Quell’attesa fu insostenibile»
Vent’anni dopo, e con i quarti del 2005 vinti di nuovo dal Milan a insaporire ulteriormente il menu, ci risiamo. San Siro, sold out sia per l’andata di questa sera, sia per il ritorno di martedì prossimo, ha il fiato sospeso. Tante, troppe stagioni internazionali anonime hanno lasciato spazio a un sussulto d’orgoglio. Improvviso. Inaspettato, anche. E poco importa se riflettori e stelle sembrano illuminare solo l’altra semifinale. A Milano e ai suoi tifosi non interessa. Onta e godimento stanno per fondersi in un mix esplosivo. Come nel 2003, appunto. «Quella semifinale fa parte del passato e andrebbe dimenticata. Ripensarci, però, è inevitabile». Stephane Dalmat sa esattamente di cosa parla. Allora, 24.enne, vestiva la maglia nerazzurra. «Molti tifosi, in queste ore, stanno riavvolgendo il nastro dei ricordi» conferma, da noi contattato. «Per i giocatori di Milan e Inter, invece, conta solo il presente. All’orizzonte s’intravede la finale di Istanbul, che è l’unico obiettivo al di là della rivalità. Disputare un incontro del genere, inoltre, dev’essere un onore». A maggior ragione, suggerivamo, alla luce di un traguardo non per forza preventivabile la scorsa estate. «Nel 2002-03, al contrario, affrontammo la stagione mettendo nel mirino anche la vittoria in Champions League» indica Dalmat. «Insomma, eravamo pronti e preparati a un match così importante. A una semifinale. L’accoppiamento con il Milan, una volta noto, alzò tuttavia il livello della tensione. I giorni precedenti l’andata furono spasmodici. L’attesa insostenibile. Volevamo scendere in campo. Il prima possibile».


«Kallon, Abbiati... sembra ieri»
Dalmat, nella gara d’andata, non fu però considerato da Hector Cuper. Il 13 maggio del 2013, con il Milan in vantaggio grazie alla zampata di Shevchenko a un amen dalla pausa, il centrocampista francese venne invece gettato nella mischia a inizio ripresa. 45 minuti tremendi, segnati dall’illusorio pareggio di Martins e - sul fronte nerazzurro - da un’eliminazione bruciante. «Partite come questa possono cambiarti la carriera» ammette Dalmat. «La mia, va da sé, avrebbe potuto assumere un valore diverso - decisamente più importante - in caso di finale e addirittura conquista della Champions sul curriculum vitae. Lo sguardo nei miei confronti sarebbe cambiato. Di qui la disillusione e la delusione per un verdetto che, purtroppo, intaccò il mio slancio». Momenti indelebili, già, «come la parata di Abbiati su Kallon allo scadere - la posso ancora vedere... - e lo scudetto sfumato all’ultima curva nel 2002. L’altro crocevia decisivo della mia carriera» spiega Dalmat, nel 2017 rimasto vittima di un brutto incidente in moto e finito in coma per sei giorni.
«Nessun favorito»
Anche il Milan del 2003 faceva paura. Più di quello guidato da Stefano Pioli e probabilmente costretto a rinunciare a Leao. «Ma a mio avviso è una semifinale senza favoriti. Da 50 e 50» rileva Dalmat. «Entrambe le difese sono solide. Con i rossoneri forti di Mike Maignan fra i pali, probabilmente il portiere più forte al mondo in questo momento. Forse, a centrocampo, l’Inter è leggermente superiore. Brozovic o Cahlanoglu? Considerato il peso del match e lo spessore del calciatore, farei giocare Brozo senza esitare. Le occasioni non mancheranno e, oltre al ruolo decisivo dei due estremi difensori, m’interessa l’impatto di Lukaku. Il belga sta tornando».


«Ammetto di aver goduto»
Chi non tornerà allo stadio per la doppia sfida meneghina è Gabriele Albertini, nel 2003 sindaco di Milano al secondo mandato. «Non sono un tifoso radicale. Anzi. Se mi permettete la battuta, come seconda squadra tengo all’Inter. Nulla a che vedere con le contrade nemiche del Palio di Siena, per intenderci. O con il coinvolgimento di Peppino Prisco. “Gufare” non appartiene alla mia persona. E ciò da prima delle esperienze da sindaco di Milano. L’equidistanza istituzionale, insomma, non c’entra». Il ricordo di Albertini, comunque, è dolce. «All’epoca ero a San Siro e, beh, ammetto di aver goduto per il risultato finale. Due pareggi, l’esito più equanime e democratico possibile. Ma a beneficio dei rossoneri». Ieri come oggi, Milano si trasformò nell’ombelico dell’Europa calcistica. «E, appunto, da milanese prima che milanista, la soddisfazione fu enorme» ribadisce l’ex esponente di Forza Italia. «Ora la storia si ripete, riportando in primo piano la tradizionale internazionalità della nostra città. Parliamo di un fatto glorioso. Di una competizione che oppone dei giganti. E rappresentare indirettamente tutto ciò, nella veste di sindaco, inorgoglisce, senz’altro». A legare Albertini alle due creature calcistiche di Milano, per altro, erano rapporti cordiali. Quasi un filo diretto. «Con Silvio Berlusconi, va da sé, la sintonia era sportiva e politica. Gli incontri non mancavano. Moratti? Come suggerivo, il fatto di non essere stato un tifoso accanito, favorì i buoni legami anche con Massimo. Parliamo, in ambo i casi, di grandi imprenditori. Per di più milanesi». Eccola una delle grandi differenze rispetto al 2003. Le proprietà di Milan e Inter, nel frattempo, hanno sposato figure e capitali stranieri. «È il segno dei tempi» commenta Albertini. «C’è un motto dei gesuiti, dai quali ho studiato, che recita: “Totus mundus nostra fit habitatio”. Sia l’intero mondo la nostra casa. Uno scenario, questo, che si configura pure nel calcio, con i marchi milanesi in mani estere. D’altronde, restando in città, il Qatar si è comprato pure i grattacieli di Porta Nuova».