L'iniziativa

Il tabù della «Svizzera africana» diventa un fumetto

Il racconto illustrato di uno dei lati più oscuri della storia elvetica, l'emigrazione delle famiglie povere verso le colonie francesi, in «Au revoir Algeria»
Jona Mantovan
28.08.2022 19:47

«Strana, questa lettera che ho ricevuto, è tutta in arabo... Spero che la nonna potrà aiutarmi a capirci qualcosa». Le prime tavole del fumetto «Au revoir Algeria» (appena pubblicato da Seismo Editore, 68 pagine, 28 franchi, scaricabile gratuitamente in formato pdf), con il giovane Daniel, aprono un vaso di Pandora. Una parte della storia svizzera misteriosa, dimenticata e forse anche volutamente nascosta. Almeno con questi toni ne parlano gli autori: l'illustratrice Aminata Devillers-Pierson, il sociologo Sandro Cattacin e la storica Marisa Fois. «L'interrogativo che ci poniamo è: possiamo parlare di "colonizzazione svizzera"? Secondo le nostre ricostruzioni, non sarebbe così sbagliato», spiega Marina Fois.

Riavvolgendo il nastro della Storia, si torna al diciannovesimo secolo. «La colonizzazione in Algeria inizia nel 1830. I francesi, quasi subito, hanno bisogno di manodopera per colonizzare le nuove terre. La Svizzera era il Paese ottimale per avere delle braccia a basso costo». All'epoca, la Confederazione era molto diversa da come la conosciamo oggi. La povertà dilagava e l'emigrazione era sponsorizzata dal governo elvetico, che voleva disfarsi delle famiglie più povere. «Le quali rappresentavano anche una sorta di problema interno», sottolinea l'esperta.

Daniel, il personaggio del fumetto, scopre così con grande stupore che sua nonna non è nata in Svizzera. «Sono "pied noir". Nata in Algeria da genitori di nazionalità svizzera. Berna faceva propaganda per incitare le famiglie a espatriare. I tuoi bisnonni, i miei genitori, sono partiti sperando di trovare fortuna in un nuovo Eldorado. Ma la realtà era diversa da come si sperava». 

Dalla ricerca al fumetto

«I nostri studenti non avevano idea dell'enormità di questa storia», continua Fois, già autrice di una ricerca dedicata al tema. Dagli archivi di Berna spuntano lettere, cartoline, diari, fotografie... le testimonianze sono tante. «Insieme ai corsisti, abbiamo immaginato dei modi diversi di raccontare questa storia, per portarla al di fuori delle aule accademiche. Da lì abbiamo avuto l'idea del fumetto. Che, tra l'altro, è stato pubblicato in un periodo particolare, perché quest'anno ricorrono i sessant'anni dell'indipendenza algerina dalla Francia, come pure i sessant'anni dagli accordi di Evian, per i quali la Svizzera ha poi avuto un ruolo cruciale. È stato il Paese facilitatore che ha portato alla risoluzione del conflitto».

Un conflitto che parla di ribellione al sopruso della colonizzazione europea, a quella "spartizione" del continente africano. Un periodo che si è concluso con una serie di combattimenti sanguinosi e particolarmente feroci.

Molte nazioni che all'epoca avevano partecipato a questa corsa forsennata si sono scusate. L'Italia ha fatto ‘mea culpa’, come la Francia,...
Marisa Fois, storica dell'Università di Ginevra

Le scuse degli altri

«Molte nazioni che all'epoca avevano partecipato a questa corsa forsennata si sono scusate. L'Italia ha fatto "mea culpa", come la Francia,...». La Svizzera, però, non ha mai portato il tema in cima alla sua agenda politica. «Non essendo una potenza coloniale al pari delle altre, si è sempre "defilata" sostenendo come non abbia mai preso parte alla colonizzazione dell'Africa. Questo, però, non è vero. Storicamente, infatti, attraverso gli svizzeri e le svizzere che sono partiti durante questi anni, possiamo dire che ne abbia preso parte». 

Cosa festeggiamo il 1° agosto?
Lilì, nonna di Daniel, nel fumetto «Au revoir Algeria»

Ed ecco così la vicenda che si sviluppa, tavola dopo tavola, vignetta dopo vignetta. Una serie di "lampi all'indietro" ci fanno seguire la narrazione della nonna di Daniel, Lilì, che attraverso un album di vecchie fotografie si ricorda dei suoi amici arabi in Algeria, della fondazione della squadra di calcio del quartiere e della pasticceria messa in piedi dal padre. Padre che porta proprio lo stesso nome del giovane liceale di Sion, che sta ascoltando la storia con molta attenzione.

Primo Agosto in Algeria

«Cosa festeggiamo il 1° agosto?», chiede la piccola ai genitori. La famiglia è a bordo del furgone della ditta (una pasticceria) al punto di ritrovo dei confederati. «È la festa nazionale. Si ricorda la fondazione del nostro Paese», risponde il padre. «L'Algeria?», chiede la bimba. «No», dice la madre. «La Francia?». «No», fa il padre. «La Svizzera», esclamano entrambi i genitori all'unisono.

La pasticceria non ha subito danni
Lilì, nonna di Daniel, nel fumetto «Au revoir Algeria»

Il veicolo raggiunge poi una grande costruzione con un bandierone rossocrociato issato al palo nello spiazzo di fronte. I tre scendono con indosso abiti tradizionali, camiciola nera con tanto di stella alpina ricamata.

Le ambientazioni, l'abbigliamento, l'attività delle persone è una ricostruzione meticolosa di vari materiali iconografici scovati nell'archivio federale di Berna, resi dalla mano dell'illustratrice Aminata Devillers–Pierson, di cui questo titolo rappresenta la sua prima opera.

E poi arrivano le bombe

Tutto sembra svolgersi in pace e armonia. Anche se la ribellione algerina contro la colonizzazione dei francesi cova come una brace ardente sotto la cenere. Durante una partita a calcio, nella squadra del quartiere, proprio quando il giovane Daniel "bisnonno" è aiutato a rialzarsi da un avversario arabo dopo aver subito un fallo, un gigantesco fungo nero si alza in lontananza. Un'esplosione colossale nelle vicinanze della sua attività commerciale. 

È così che è iniziata la guerra, almeno per la nostra famiglia
Lilì, nonna di Daniel, nel fumetto «Au revoir Algeria»

«La pasticceria non ha subito danni», constata la piccola dopo una corsa per vedere e capire cosa sia successo. «Ma fino a quando?», si chiede il padre. Mentre in lontananza, nel disegno, ci sono altre colonne di fumo denso. «È così che è iniziata la guerra, almeno per la nostra famiglia», dice la nonna al giovane Daniel "pronipote".

Di male in peggio

Le cose peggiorano. La battaglia di Algeri, 1957. Il ritorno del generale De Gaulle, 1958. Iniziano gli anni Sessanta con le manifestazioni che infiammano il Paese. E poi la Settimana delle Barricate. E allora la decisione, sofferta. Partire. «La Svizzera ci chiede di rientrare. Dobbiamo farlo, per la nostra sicurezza. Il governo non ci ha abbandonato, si occuperà di noi», è il succo della concitata conversazione al telefono. Una settimana dopo, la famiglia lascia tutto e sale sull'aereo.

Il rientro è stato duro. Molti, poi, erano nati in Algeria e non avevano nemmeno mai messo piede in Svizzera
Marisa Fois, storica dell'Università di Ginevra

«Il rientro è stato duro - spiega Fois. Che mette in dubbio anche la parola stessa -. Non penso che "rientro" sia il termine corretto da usare in questo caso. Molti, infatti, erano nati in Algeria. Erano svizzeri di prima o seconda generazione. Parecchi di loro non avevano nemmeno mai messo piede in Svizzera». Nonostante tutte le rassicurazioni dalla patria, la situazione una volta sbarcati è molto diversa da com'era stata dipinta all'inizio.

I «piedi neri»

Partire verso una "patria" che non mantiene le promesse, buttando a mare anche tutti i sacrifici e tutto quanto si è costruito nel corso di tanti anni di fatiche. I beni di questa "Svizzera africana", in effetti, sono stati pure nazionalizzati dal governo algerino. «Una volta atterrati nel Paese che ritenevano il loro - prosegue Fois -, si sono trovati di fronte a mille avversità. Dal punto di vista sociale, erano visti come colonizzatori. Come degli arabi, degli africani, degli algerini... non erano considerati svizzeri. Per molti è stato difficile anche sotto il profilo lavorativo, dato che la maggior parte aveva raggiunto l'età del pensionamento. La Confederazione non ha potuto riconoscere gli anni di lavoro all'estero ed ecco che si aggiunge pure un inghippo burocratico sui vitalizi».

Oltre al danno... la beffa, insomma. Nonostante la fondazione di un'associazione dedicata a difendere i loro interessi, l'Associazione degli svizzeri in Algeria, molti sono rimasti delusi. Non hanno avuto gli indennizzi che spettavano loro.

Il suo uso è nato all'epoca degli scambi di carbone tra le due sponde del Mediterraneo. Le persone che vi lavoravano, di origine algerina, avevano i piedi neri perché camminavano sul carbone
Marisa Fois, storica dell'Università di Ginevra

Non è bastato il termine sprezzante "piedi neri" per emarginare il gruppo di espatriati/rimpatriati. «È un termine originariamente dispregiativo, usato per definire i francesi d'Algeria o gli europei d'Algeria e, quindi, anche gli svizzeri», conclude l'esperta. «Il suo uso è nato all'epoca degli scambi di carbone tra le due sponde del Mediterraneo. Le persone che vi lavoravano, di origine algerina, avevano i piedi neri perché camminavano sul carbone. I francesi hanno poi usato questo termine per indicare i francesi di "serie B", quelli che avevano vissuto in Algeria, che potevano essere assimilati agli algerini e che tornarono in Francia in seguito all'indipendenza del Paese, avvenuta appunto nel 1962».

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