La Terra complessa

«Ecco perché, nel 2006, i palestinesi hanno votato per Hamas»

Torna la rubrica del Corriere del Ticino sulla storia di Israele, Palestina e Medio Oriente – Nel sesto episodio partiamo dal summit di Camp David (2000) per concludere con lo scontro tra Fatah e Hamas (2007)
© EPA/Mohamed Hajjar
Giacomo Butti
13.04.2024 13:00

Qual è la storia della Palestina e di Israele? Che cosa è successo prima del 7 ottobre 2023? Come leggere il conflitto in Medio Oriente? Con La Terra complessa, il Corriere del Ticino prova a rispondere a queste domande, proponendovi – in compagnia dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand – una ricostruzione fattuale di quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.

Dopo una prima parte divisa in quattro puntate (sotto la lista), rubrica e podcast tornano per trattare l'ultimo trentennio, dall'inizio degli anni Novanta al massacro del 7 ottobre.

Benoît Challand è professore di sociologia alla New School di New York. Già titolare della cattedra di Storia contemporanea all'Università di Friburgo, Challand ha insegnato anche alla New York University, alla Scuola Normale Superiore di Firenze e all'Università di Betlemme. Vanta numerose pubblicazioni sulla storia e società civile del Medio Oriente, alcune delle quali edite dalla Cambridge University Press.

Puntata 6 – Inizio Duemila: da Camp David allo scontro tra Fatah e Hamas

Prof. Benoît Challand. © The New School
Prof. Benoît Challand. © The New School

Avevamo concluso la quinta puntata parlando degli anni Novanta, dai processi di pace all'ascesa di Netanyahu. Ripartiamo da qui. Qual è la situazione in questo periodo?
«Ovviamente, negli anni Novanta, negli accordi di Oslo era riposta una certa speranza. Speranza che portassero alla nascita di uno Stato palestinese, speranza che portasse al riconoscimento del diritto al ritorno. Speranza che Israele potesse ottenere il riconoscimento e la normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi. A trent'anni da questi accordi, possiamo dire che sono stati un fallimento. Perché? Tanto ha a che fare con la continuazione del progetto coloniale nei territori occupati. Come già evidenziato nella scorsa puntata, gli insediamenti israeliani – illegali secondo il diritto internazionale – crescono enormemente proprio nel periodo degli accordi di Oslo, con il numero di coloni che passa dai 200 mila di fine anni Ottanta ai quasi 400 mila di fine anni Novanta. Per i palestinesi tutto ciò rappresenta una contraddizione enorme. "Ma come, Israele vuole la pace ma allo stesso tempo raddoppia la popolazione nei territori occupati?". In realtà, il prosieguo della colonizzazione rispetta la logica alla base degli accordi di Oslo, che è una logica di asimmetria: i palestinesi non ottengono Stato o sovranità, non hanno il diritto al ritorno, non possono scegliere la propria capitale, non possono bloccare - appunto - questo flusso di coloni. Con Rabin e Peres, si sviluppa una visione economica che consiste nel creare zone miste sul confine tra Israele e i territori delle Zona A e B, nelle quali installare fabbriche che sfruttino la manodopera palestinese. Pagati pochissimo, i lavoratori palestinesi creano un prodotto venduto come israeliano, creando dunque un surplus economico. Sono tante le zone industrializzate attorno a Gerusalemme o Ramallah create proprio sulla visione di Shimon Peres. Questo modello, tuttavia, impedisce ai palestinesi di dare vita alla loro industria, di creare un proprio sviluppo economico. A ciò va sommato che tutte le tasse pagate dai palestinesi transitano da Israele e le autorità palestinesi ricevono dunque quanto è loro dovuto solo se si comportano bene secondo il punto di vista israeliano. Dunque ogni volta che c'è uno screzio, le tasse raccolte dalla popolazione palestinese non vengono versate all'Autorità nazionale palestinese (ANP): anche qui si vede un'asimmetria insita negli accordi di Oslo. Queste e altre conflittualità, insieme al fallimento di Camp David, porteranno alla Seconda intifada».

In questa fase, fine Novanta inizio Duemila, al governo israeliano si susseguono diversi primi ministri. Vale la pena fare un breve riassunto dei passaggi di testimone.
«La scorsa puntata abbiamo parlato dell'assassinio di Yitzhak Rabin, avvenuto nel novembre '95 per mano di un estremista israeliano opposto alla logica di Oslo. Rabin viene sostituito dal suo vice, Shimon Peres, un altro membro del partito laburista che per certi versi è stato il cervello dietro gli accordi di Oslo. Peres, tuttavia, non ha la legittimità militare vantata da quasi tutti i premier israeliani prima e dopo di lui. Diplomatico famoso, Peres eredita il potere per qualche mese, ma nel maggio del 1996 è già sostituito da Netanyahu, vincente alle elezioni con il partito di destra Likud. Netanyahu resta al potere fino al '99, poi a sua volta viene sconfitto dalla sinistra, dal laburista Ehud Barak. È proprio Barak il leader che si reca a Camp David con l'obiettivo di creare una pace duratura, ma il sostegno al suo governo è debole e alla Knesset si deve accontentare di soli 26 deputati contro i 44 laburisti sotto il governo di Rabin (1992-1996). Un segnale, questo calo, che nonostante la vittoria alle elezioni il centro-sinistra israeliano stava perdendo consensi nel Paese. Nel 2001 Barak è sostituito da Ariel Sharon, e da allora il governo israeliano è stato guidato quasi esclusivamente da leader di destra o centro-destra».

Dare la colpa a una o all'altra parte per il fallimento del summit di Camp David sarebbe sbagliato

Arriviamo, dunque, a Camp David. Si può parlare, anche qui, di fallimento?
«Sì. Nel 2000 il presidente statunitense Bill Clinton invita Ehud Barak e Yasser Arafat a Camp David, luogo dove – alla fine degli anni Settanta – Israele aveva già siglato degli accordi di pace con l'Egitto di Anwar Sadat. La speranza era che la storia potesse ripetersi, ma non è andata così. Facciamo un passo indietro: gli accordi di Oslo, lo ricordiamo, funzionano con un processo incrementale: se una fase è andata bene, si procede con la successiva. La situazione, al momento del summit di Camp David, è ferma all'ultimo passo, nel quale si sarebbero dovuti affrontare i temi più spinosi: cosa fare delle zone C in Cisgiordania (territori occupati e controllati da Israele, il 60% del totale, ndr), definire lo status di Gerusalemme, stabilire le frontiere di un ipotetico Stato palestinese, decidere se concedere il diritto al ritorno dei milioni di profughi palestinesi della Nakba. Tutti i grossi dossier, insomma, sono rimasti aperti. La speranza, come detto, era appunto chiuderli grazie al vertice americano. Difficile, però, considerate le conflittualità (di cui parlato prima) nate proprio dagli accordi di Oslo. La narrativa diffusasi dopo svolgersi del summit dice che a Camp David i palestinesi hanno rifiutato un'offerta israeliana molto generosa. La realtà – testimoniano anche fonti neutre come il libro scritto da Robert Malley, consigliere di Bill Clinton – è che Barak, come detto, non aveva più una maggioranza nella Knesset e non aveva quindi un mandato forte dal Parlamento israeliano con il quale imporre la propria visione e fare vere concessioni. Si parlò di uno scambio di territori, e di uno Stato palestinese a macchia di leopardo, ma nulla che rappresentasse un'opzione allettante per i palestinesi. I leader di entrambe le parti erano arrivati negli Stati Uniti con poche speranze di trovare un accordo. Per questo dare la colpa a una o all'altra parte per il fallimento di Camp David sarebbe sbagliato».

Ed è qualche settimana dopo la chiusura del vertice statunitense che Ariel Sharon – allora capo dell'opposizione con Ehud Barak al governo – fa la sua famosa «passeggiata» sulla Spianata delle Moschee. Un atto provocatorio che ha dato il via alla Seconda intifada.
«Esatto. La Seconda intifada (letteralmente, ribellione) è un'ondata di violenza che scoppia sia in Israele che nei Territori occupati. La Prima, cominciata negli anni Ottanta a Gaza come ribellione contro l'occupazione, era stata definita l'intifada delle pietre. La Seconda intifada è molto più violenta perché i palestinesi, a questo punto, sono dotati di parecchi armamenti (pistole e fucili) in più, arrivati nel quadro degli accordi di Oslo per sostenere la creazione di forze palestinesi di sicurezza: polizia civile, guardia presidenziale, servizi di intelligence, e così via. La rivolta comincia nel settembre 2000 e continua per quattro o cinque anni: esistono diverse interpretazioni sull'effettiva conclusione della Seconda intifada. In ogni caso, questa violenza crea subito una risposta militare molto forte da parte di Israele che bombarda le città  palestinesi con elicotteri e aerei. Si assiste dunque, rispetto alla prima rivolta, a una militarizzazione dell'intifada. Ma c'è anche una conflittualità interna, sia nella politica israeliana sia in quella palestinese, che non ha fatto altro che alimentare gli episodi di violenza. Partiamo da quella israeliana. Ariel Sharon, membro del Likud come Netanyahu, tra fine anni Novanta e inizio Duemila stava affrontando dei guai giudiziari per corruzione. Per questo non aveva alcun incarico istituzionale. Nell'estate Duemila le accuse a suo carico vengono cancellate e Sharon può quindi tornare a fare politica: si apre un conflitto con Netanyahu per la leadership nel partito di destra. La passeggiata di Sharon nella Spianata delle Moschee rappresenta, sì, una provocazione ai palestinesi, ma anche un modo per contestare il controllo di Netanyahu sul Likud. Questa competizione interna, nel contesto di un partito da sempre contrario alla pace, crea anche una corsa alla violenza».

La corruzione dilagante nell'ANP scontenta la popolazione palestinese e spiana la strada per l'ascesa politica di Hamas

E qual è la conflittualità interna alla leadership palestinese?
«Bisogna capire che in Palestina la logica di Oslo è stata sostenuta da Arafat e dall'ANP, la quale è un'autorità molto corrotta, poco efficiente, personalistica, clientelare. La gente in Palestina è scontenta e non a caso la Seconda intifada si sviluppa con gruppi armati che non accettano gli ordini dell'ANP di calmare la rivolta, seguire le istruzioni di Arafat e salvare il processo di pace. È da questo momento che si assiste a una radicalizzazione di massa non solo all'interno di Hamas, ma anche in tantissimi giovani membri di Fatah (il partito di Arafat) che rifiutano gli ordini dell'ANP e alimentano, con la creazione di gruppi di resistenza locale, la violenza dell'intifada. Una violenza cresciuta insieme alla frustrazione per i check-point, i muri e il crescente numero di violenze – non dell'esercito israeliano, ma dei coloni più vicini agli estremismi di destra – ai quali sono costretti i palestinesi».

Quella generazionale è una chiave di lettura interessante. C'è insomma uno scontro fra chi ha vissuto la Nakba, la generazione di Arafat ora al potere, e chi è nato dopo la "catastrofe" palestinese?  
«In parte sì. È vero: tutte le posizioni di leadership nell'Autorità nazionale palestinese e nell'OLP sono occupate proprio dalla generazione della Nakba. E lì si manifesta un problema che purtroppo esiste tuttora in tanti Paesi arabi, cioè il proliferare della logica patriarcale, la quale non è solo dominazione maschile sulle donne, ma anche dominazione delle vecchie generazioni sulle nuove generazioni. Un sistema che non fa spazio ai giovani. Da un punto di vista sociologico, il periodo è estremamente interessante. Pur nei difetti degli accordi di Oslo, le prospettive di pace lasciano spazio, negli anni Novanta, a un periodo di speranza. Per la generazione cresciuta, politicamente, in questo periodo si passa da un'ottica di lotta armata, quella della Prima intifada, a una di coesistenza. Sono stato in Palestina per la prima volta nel 2000, ai tempi di Camp David. E sono rimasto molto colpito dagli scampi commerciali e culturali presenti all'epoca. Palestinesi che si recano liberamente in Israele per visitare i luoghi dove erano nati gli antenati. O israeliani che si recavano nei Territori occupati per svago: Ramallah, città palestinese in Cisgiordania, era una scena jazz alternativa molto ricercata da intellettuali e musicisti di Tel Aviv. Non solo: lungo la linea verde, ad esempio nelle città di Tulkarem e Qalqilya, si era sviluppata una convivenza culturale basata su un passato comune legato all'Unione Sovietica. Per questa ragione erano comuni le insegne che indicavano attività (dentisti, supermercati e così via) in cirillico. Tanti palestinesi, del resto, negli anni Settanta-Ottanta avevano studiato nell'Unione Sovietica, mentre molti ebrei russi, dopo il collasso dell'URSS, erano migrati in Israele. Sostenuto dai laburisti e osteggiato dal Likud, questo tentativo di convivenza non sopravvive alle conflittualità di cui abbiamo parlato prima, al collasso del processo di Oslo e al fallimento di Camp David».

Parlavamo di militarizzazione. Vale la pena, allora, ricordare che è proprio in questi anni che il conflitto vede una svolta storica e che avrà un impatto sul ventennio seguente: il braccio armato di Hamas comincia a sviluppare e utilizzare i razzi Qassam.
«In questi anni l'ala militare di Hamas, nato come movimento politico caritatevole, diventa sempre più importante e autonoma. I primi razzi Qassam sono lanciati attorno al 2001, all'inizio della Seconda intifada, ed è un fatto che si inserisce nella militarizzazione avvenuta da entrambi i lati. Il nome dei razzi deriva da quello di Izz al-Din al-Qassam, un leader della Grande Rivolta Araba degli anni Trenta di cui avevamo già parlato nelle prime puntate. Inizialmente Hamas utilizza una forma molto rudimentale di razzo: tubi di metallo che, per farla breve, non sono un granché. Questi razzi partono in ogni direzione e i primi lanci causano più danni dal lato palestinese che in quello israeliano: è anche per questa ragione che il celebre sistema di difesa antimissilistico israeliano, Iron Dome, è stato sviluppato solo più avanti. Con gli anni Hamas sarà in grado, con i suoi ingegneri, di creare armamenti più precisi. La maggior parte dei morti sul lato israeliano sono, in ogni caso, causati dagli attentati suicidi effettuati in luoghi pubblici: nelle discoteche, nei ristoranti, sugli autobus. Per questo motivo, prima che all'Iron Dome, si pensa alla costruzione di un muro di separazione, West Bank Barrier, conosciuto anche – a seconda del lato da cui lo si guarda – come muro di sicurezza o muro dell'apartheid. È un muro, va sottolineato, voluto dalla sinistra, dal partito laburista e non, come potrebbe pensare qualcuno, dalla destra di Sharon. Il Likud era contrario al muro perché per il partito rappresentava un errore creare, de facto, una frontiera fissa: l'opzione migliore, per la destra, era mantenere uno stato di ambiguità così da poter "rosicchiare", di volta in volta, pezzi di territori in più. Nonostante l'opposizione del Likud, il muro viene costruito in Cisgiordania con l'obiettivo di impedire l'entrata e l'infiltrazione di palestinesi dentro Israele. Ma per i palestinesi rappresenta anche un ritorno a quella dimensione del sionismo e dell'occupazione che punta sul massimizzare l'accesso ai territori per gli israeliani minimizzando, al contempo, la presenza di popolazione palestinese. Sulla mappa (qui il link a una cartina ONU, ndr), il muro si snoda in modo da prendere ulteriori territori palestinesi e portarli dal lato israeliano. E se gli israeliani hanno grande libertà di movimento, i palestinesi si trovano rinchiusi».

E in tutto ciò l'ANP che cosa fa?
«Sin dagli anni Novanta è chiaro che il gruppo attorno ad Arafat approfitti della sua posizione politica per fare soldi. Un fenomeno, questo, sostenuto da Israele stesso, che per controllare i palestinesi ha a lungo fatto affidamento sulla strategia del divide ut imperes. Con questo obiettivo, Israele concede ad alcune personalità palestinesi i monopoli su alcuni beni (cemento, benzina, sigarette), spesso a capi militari e politici vicini ad Arafat. Questi utilizzano i propri vantaggi a fini clientelari. Per Israele la mossa non serve solo a portare instabilità fra i vertici palestinesi, ma è anche un modo per tenere in pugno, tramite i vantaggi economici, personalità di spicco nell'ANP, così da controllarle nell'applicazione degli accordi di Oslo. Nel corso degli anni ci sono stati pesanti scandali, alcuni dei quali riguardanti proprio il muro costruito in Cisgiordania. In particolare, si scoprì che parte del muro voluto da Israele fu costruito con cemento che i palestinesi avevano ricevuto dall'Egitto, a prezzi ribassati grazie agli accordi di Oslo. Chi deteneva il monopolio del cemento lo aveva rivenduto al governo di Israele e ai coloni israeliani a prezzo di mercato. Per la popolazione fu un colpo terribile vedere alcuni fra i propri leader fare soldi sull'occupazione di cui i palestinesi sono vittima. Arafat muore nel novembre 2004. Le elezioni presidenziali del 2005 vedono quindi l'ascesa si Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen, un politico interamente investito nella logica che non è in grado di eradicare la corruzione nell'ANP. Un anno più tardi si tengono quindi le elezioni legislative nei territori palestinesi ed è in questa fase che Hamas, dopo aver deciso di non partecipare al processo elettorale del '96, cambia registro. Hamas si candida con lo slogan "Cambiamento e riforme", puntando da una parte una riforma islamica, dall'altra a un cambio di leadership con più giustizia sociale. Hamas vince le elezioni nel 2006 proprio grazie al voto di protesta contro la corruzione dell'ANP e la sua vittoria stupisce tutti, probabilmente anche Hamas stessa. Con i risultati delle elezioni legislative, Hamas è in grado di conquistare una maggioranza dentro il Parlamento: un vero e proprio terremoto per la comunità internazionale».

Nel 2005, l'uscita unilaterale di Israele da Gaza lascia la Striscia in una situazione di caos

Sono anche gli anni, questi, del ritiro unilaterale israeliano da Gaza. Come avviene e per quale motivo?
«Nel periodo in cui muore Arafat, alla guida di Israele si trova Ariel Sharon. In questa fase confusa, Sharon vede una buona occasione per ritirarsi dalla Striscia di Gaza. Facciamo un passo indietro per spiegare il perché. Fra i 400 mila coloni israeliani che in questo periodo si trovano nei Territori occupati, una piccola frazione abita nella Striscia di Gaza. Parliamo di insediamenti da 5-8 mila abitanti che necessitano una grande presenza militare e forti spese per la sicurezza. Sharon sfrutta l'occasione, sì, per sgomberare questi insediamenti scomodi e, al contempo – questo lo sappiamo grazie a un'intervista radiofonica al suo consigliere Dov Weissglass –, dare l'impressione che Israele sia ancora impegnato per la pace, mentre ai palestinesi viene lasciata, all'improvviso, la gestione della Striscia in una situazione difficilissima. Nel 2005, quindi, Israele effettua un ritiro unilaterale dalla Striscia, senza un processo di coordinazione con l'ANP. Va sottolineato inoltre che, pur rimuovendo la presenza militare e coloniale dalla Striscia, Israele continua de facto a essere una potenza occupante. Controlla ancora, infatti, tanti aspetti della vita a Gaza. Dall'anagrafe, il registro di nascita e morte, agli spostamenti verso e dalla Striscia, fino alla quantità di beni importata ed esportata. La mossa di Sharon consiste dunque in un disimpegno militare da Gaza ma anche nel mantenimento di un controllo totale dei confini, che dal 2007 in poi si concretizza in un vero e proprio assedio. L'uscita unilaterale da Gaza lascia la Striscia in una situazione di caos: prima, per breve tempo, sotto il controllo dell'Autorità palestinese. E poi, dopo le già citate elezioni e un colpo di Stato, quello di Hamas». 

Come avviene, in breve, questa presa di potere definitiva a Gaza?
«Nel 2006 (a differenza del 1996), Israele non concede ai palestinesi residenti a Gerusalemme di votare. Sono dunque solo i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza a poterlo fare. Da anni, la leadership politica di Hamas si trovava per la maggior parte a Gaza. I pochi capi di Hamas in Cisgiordania erano infatti stati espulsi verso la Giordania. Ma nel 2006 Hamas vince tutto, non solo nella Striscia di Gaza: anche in Cisgiordania. La sconfitta di Fatah crea un rompicapo politico internazionale: Hamas è un'entità designata come terrorista dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea: la comunità internazionale, quindi, non può accettare che stia al governo. Ma Hamas arriva al potere tramite elezioni democratiche. Come risolvere il problema? La comunità internazionale spinge perché si eviti un governo monocolore. Per sei mesi, allora, si discute della possibilità di creare un governo di unità nazionale, con Fatah e Hamas che dividono il potere. In particolare, si discute su chi debba controllare il ministero degli Interni e, dunque, la sicurezza nei Territori occupati e a Gaza. Israele e la comunità internazionale non possono accettare di avere come partner nella sicurezza Hamas. Quest'ultimo, da parte sua, non accetta di dover concedere a Fatah un ministero così importante. I negoziati si protraggono fra fine 2006 e inizio 2007, senza che si arrivi a un accordo. È a giugno 2007, allora, che arriva la svolta: un leader di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, tenta il colpo di Stato nella Striscia di Gaza. Fa entrare degli armamenti attraverso le guardie presidenziali e prova a sconfiggere Hamas nella sua stessa roccaforte. Ma il colpo fallisce: Hamas vince la piccola guerra civile con Fatah e da quel momento c'è una separazione netta, politica e geografica, dei territori palestinesi. Hamas controlla la Striscia di Gaza, Fatah fa lo stesso in Cisgiordania. La soluzione soddisfa la comunità internazionale: gli aiuti economici europei e americani possono continuare a essere inviati all'ANP di Abu Mazen in Cisgiordania senza passare da Hamas». Dopo la separazione, Israele decide di applicare due politiche completamente differenti: la Striscia di Gaza viene chiusa in un blocco totale, il già citato assedio: una forma di punizione collettiva contro i palestinesi che abitano la zona. In Cisgiordania, invece, Israele lascia spazio d'azione all'Autorità nazionale palestinese, a patto che rimanga docile alla sua volontà. Concretamente, Israele permette all'ANP di portare avanti uno sviluppo economico neoliberale sotto la guida del premier ed economista palestinese Salam Fayyad. Il messaggio è chiaro: "Se accettate le nostre condizioni, potrete continuare a esistere. Se invece volete un confronto, allora, il trattamento sarà quello riservato alla Striscia di Gaza e a Hamas"».

La pubblicazione più recente:Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023      

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