Il dramma degli ostaggi, un anno dopo
Israele ha dato il via alle cerimonie per il primo anniversario dell'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. A Reim, sul luogo del massacro al festival musicale Nova, una folla ha dato il via alle cerimonie con un minuto di silenzio alle 6.29, ora di inizio dell'attacco del movimento islamista palestinese nel sud del Paese.
Alla stessa ora, centinaia di persone si sono radunate fuori dalla casa del premier Benyamin Netanyahu a Gerusalemme, chiedendo un accordo per la liberazione degli ostaggi e per il cessate il fuoco. La polizia – riferisce Haaretz – ha impedito alla folla di avanzare lungo la strada.
Nel frattempo, il comune di Petah Tikva, nel centro di Israele, ha annunciato che l'ostaggio Idan Shtivi, 28 anni, è stato assassinato il 7 ottobre 2023 al festival Nova di Reim e il suo corpo è trattenuto a Gaza. Era al festival per scattare delle foto. Ha cercato di fuggire in auto, durante l'attacco, ma il veicolo è stato in seguito ritrovato ricoperto di fori di proiettile.
Nel frattempo, i familiari degli ostaggi sequestrati il 7 ottobre continuano a lanciare appelli. L'ultimo, proprio oggi: «Chiediamo ai leader mondiali, alla comunità globale e a tutte le parti interessate di mantenere la pressione su Hamas affinché accetti un accordo per il rilascio di tutti gli ostaggi. Nel celebrare questo triste anniversario, esortiamo il mondo a non diventare silenzioso o compiacente. Ogni giorno che passa è un altro giorno di sofferenza inimmaginabile per gli ostaggi e le loro famiglie. Il tempo è essenziale. Agite ora!».
Da quel giorno è passato un anno, e molte delle persone rapite non sono ancora tornate a casa. Due settimane dopo l’attacco il giornale israeliano Haaretz pubblicava la lista dei nomi di 201 ostaggi, da Kfir Bibas, neonato di 9 mesi, fino ad Arye Zalmanovich, 86 anni. Pochi giorni dopo, il 2 novembre, sulla copertina del Sun campeggiano 32 foto di bambini e bambine. Al centro la scritta: «Bring them home», riportateli a casa, diventato lo slogan della campagna per il recupero degli ostaggi.
Durante il discorso all'Assemblea generale dell'ONU, lo scorso 27 settembre, il premier Benjamin Netanyahu ha dichiarato che dei 251 ostaggi rapiti, «Israele ne ha portati a casa 154, di cui 117 vivi». Secondo le stime israeliane, dunque, nelle mani di Hamas rimangono ancora 97 ostaggi. Non è dato sapere quanti di loro siano ancora in vita.
Negli ultimi 366 giorni sono molte le manifestazioni di protesta che hanno paralizzato Israele, Tel Aviv in primis. Ondate di rabbia e protesta. I parenti degli ostaggi chiedono che il capo del governo si assuma le sue responsabilità. «Bring them home», ripetono. Il 1. settembre è stato convocato uno sciopero generale. «A partire da domani, il Paese tremerà», il messaggio dei parenti. «Chiediamo alla gente di prepararsi. Israele si fermerà. Netanyahu ha abbandonato gli ostaggi: ora è un fatto». Il premier, il giorno successivo, si è mostrato in conferenza, da Gerusalemme: «Chiedo scusa alle famiglie degli ostaggi per il fatto che non siamo riusciti a riportarli a casa vivi. Hamas pagherà per questo un duro prezzo. Siamo nel pieno di una guerra esistenziale contro l'Iran, la nostra vittoria dipende dalla nostra unione».
Sabato pomeriggio, a Tel Aviv, un gruppo di persone si è riunito sotto il ponte Hakyria. «È passato un intero anno da quando mio figlio è stato rapito, e con lui altre 100 persone sono ancora a Gaza», ha detto Einav Zangauker, che aspetta suo figlio 24.enne Matan. «Se vi chiedete perché? Perché sono ancora a Gaza? C’è una sola risposta. A causa di Netanyahu, che ha deciso di sacrificare la vita degli ostaggi per tenere in piedi il suo governo». Le ha fatto eco il fratello di Danny Elgarat: «Oggi è chiaro che Netanyahu non vuole riportare indietro gli ostaggi, anche se la guerra a nord dovesse finire. Perché finché la guerra continua, non verrà istituita alcuna commissione d’inchiesta statale. Netanyahu vuole rimanere al potere per sempre e, quindi, sta conducendo Israele in una guerra perpetua». «Oggi, sento che noi, le famiglie, siamo un fastidio», ha concluso Merav Svirsky, i genitori e il fratello uccisi nel kibbutz Be’eri. «Stiamo infastidendo il governo, le commissioni della Knesset, tutti. Siamo stati messi ai bordi della società perché la nostra voce ricorda il fallimento del governo, il fallimento della sicurezza, il fallimento di Netanyahu».