La Terra complessa

«Il futuro della regione verrà dettato dalle scelte di Israele, partendo dalla sua definizione»

Torna, per una settima e ultima puntata, la rubrica del Corriere del Ticino sulla storia di Israele, Palestina e Medio Oriente – In quest'ultimo episodio ci concentriamo sul periodo che va dal 2007 all'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023
© AP Photo/Leo Correa
Giacomo Butti
28.07.2024 06:00

Qual è la storia della Palestina e di Israele? Che cosa è successo prima del 7 ottobre 2023? Come leggere il conflitto in Medio Oriente? Con La Terra complessa, il Corriere del Ticino prova a rispondere a queste domande, proponendovi – in compagnia dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand – una ricostruzione fattuale di quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.

Dopo una prima parte divisa in quattro puntate (sotto la lista), rubrica e podcast tornano per trattare l'ultimo trentennio, dall'inizio degli anni Novanta al massacro del 7 ottobre.

Benoît Challand è professore di sociologia alla New School di New York. Già titolare della cattedra di Storia contemporanea all'Università di Friburgo, Challand ha insegnato anche alla New York University, alla Scuola Normale Superiore di Firenze e all'Università di Betlemme. Vanta numerose pubblicazioni sulla storia e società civile del Medio Oriente, alcune delle quali edite dalla Cambridge University Press.

Puntata 7 – Dall'assedio di Gaza al 7 ottobre 2023

Prof. Benoît Challand. © The New School
Prof. Benoît Challand. © The New School

Avevamo concluso la sesta puntata parlando delle votazioni del 2006, dello scontro fra Gaza e Fatah, del blocco di Gaza. Entriamo nella storia più recente, quella degli ultimi 15 anni circa, per arrivare al 8 ottobre 2023. Ripartiamo però dal blocco della Striscia avvenuto nel 2007. Che impatto ha avuto sulla Gaza pre-7 ottobre?
«Se potessimo andare secoli indietro nel tempo, vedremmo Gaza come una città ricca, un grande centro del commercio regionale. Oggi, invece, siamo abituati a vedere immagini che ci presentano la Striscia come una zona poverissima. Dopo il fallito colpo di Fatah nel 2006 e il raggiungimento di un monopolio di Hamas a Gaza, Israele stringe ancor più il blocco creato sin dal '67 attorno alla Striscia. Si tratta della continuazione di una politica in atto da anni, politica che Sara Roy, economista di Harvard, definirà "l'anti-sviluppo" o il de-sviluppo della Striscia di Gaza. Indagini giornalistiche condotte a inizio Duemila, del resto, mostravano come il ministero della Difesa israeliano calcolasse allora il fabbisogno calorico minimo di cui avevano bisogno i palestinesi di Gaza per sopravvivere: Israele faceva entrare così nella Striscia solo il numero esatto di camion per permettere questo apporto minimo».

Una situazione che si è protratta fino ai giorni nostri?
«Dal 2007 Israele controlla cosa entra e cosa esce dalla Striscia, tutta merce in transito perlopiù dal porto israeliano di Ashkelon o dalla città egiziana di al-Arish. Anche gli aiuti umanitari, dal materiale per gli ospedali a libri e matite usate nelle scuole, necessitano della luce verde del governo israeliano. Ciò ha creato, negli anni, situazioni assurde. Durante la breve guerra del 2014 a Gaza, per esempio, i container di aiuti erano rimasti bloccati ad Ashkelon, perché Israele aveva bloccato i valichi che portano a Gaza. Le organizzazioni internazionali avevano dovuto pagare una penale per i giorni in più passati dal materiale in porto. Misure kafkiane che hanno portato solo allo spreco di risorse umanitarie destinate ai civili palestinesi».

Ha accennato al conflitto del 2014. Non è l'unico: prima dell'attacco di Hamas avvenuto il 7 ottobre scorso – attacco che ha segnato l'inizio della guerra più lunga della storia di Israele –, sono numerose le operazioni lanciate dalle due parti negli anni Duemila.
«Sì. Tra le operazioni più famose di Hamas possiamo citare il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, avvenuto nel giugno 2006. Shalit rimane per anni ostaggio di Hamas: verrà liberato solo nel 2011 in cambio della liberazione di 1000 prigionieri politici palestinesi. Questo è un primo evento che, insieme al lancio di razzi, porta Israele a lanciare operazioni militari su Gaza. Crimini di guerra sono stati registrati, però, da un lato e dall'altro. Fra dicembre 2008 e gennaio 2009 si svolge un'offensiva militare di una ventina di giorni (Operazione Piombo Fuso, ndr) che fa circa 1400 morti dal lato palestinese e 13 da quello israeliano. In quest'occasione, l'esercito israeliano – come documentato dal rapporto Goldstone – ha utilizzato bombe al fosforo bianco, un'arma chimica vietata dal diritto internazionale. Conflitti si verificano anche nel 2012 e di nuovo nel 2014, quando Israele bombarda la Striscia: 2000 palestinesi vengono uccisi a fronte di 73 israeliani morti. La lista di operazioni militari è lunghissima e per questo una storica italiana, Laura Guazzone, non parla di "guerre" a Gaza. Ma di un'unica "lunga guerra". Ciò a cui stiamo assistendo ora, a partire dal 7 ottobre 2023, rappresenta dunque la continuazione di un conflitto, di un ciclo di violenze, tutt'altro che nuovo. Ciò a cui abbiamo assistito è stato un aumento dell'intensità, con Hamas che è riuscito a penetrare in territorio israeliano, cosa mai avvenuta priva, con i rapimenti avvenuti tutt'al più nella zona di confine».

La lista di operazioni militari è lunghissima e per questo una storica italiana, Laura Guazzone, non parla di "guerre" a Gaza. Ma di un'unica "lunga guerra"

Perché questa cristallizzazione del conflitto?
«In tutti questi anni, Israele si è più volte coordinato con Hamas. Spesso per i cessate il fuoco, ma anche per la gestione dell'anagrafe palestinese o dell'entrata delle già citate "calorie" necessarie al sostentamento della popolazione. I governi israeliani, soprattutto quelli di destra, hanno a lungo sostenuto il mantenimento di Hamas al potere. Netanyahu, nel corso degli anni, lo ha affermato più volte: per Israele era comodo avere Hamas al governo a Gaza. In primo luogo perché permette di scavare una divisione tra i palestinesi, con Hamas e Fatah mai in grado di raggiungere una riconciliazione. In secondo luogo perché Hamas è una figura terroristica, il che permette a Israele di usare il pugno di ferro e, soprattutto, rimandare sine die qualsiasi forma di negoziato per la nascita dello Stato palestinese. Questa realtà a Gaza permette a Israele anche di continuare la colonizzazione nella Cisgiordania. Come già evidenziato più volte nel podcast, per i palestinesi la continua crescita del numero di coloni israeliani fra Cisgiordania e Gerusalemme Est rappresenta un problema serio e un ostacolo al processo di pace. Fra il 2009 e il 2017 Barack Obama ha tentato – uno dei pochi presidenti americani a farlo, con George Bush Sr. nel 1991 – di mettere sotto pressione i governi israeliani, con l'obiettivo di frenare lo sviluppi degli insediamenti. Senza successo».

A proposito di Cisgiordania e di riconciliazione Hamas-Fatah, forse vale la pena – in questo periodo denso di eventi – ricordare la pubblicazione, da parte di Hamas, di una nuova Carta, una sorta di nuova costituzione.
«Una delle condizioni imposte da Fatah per la riconciliazione con Hamas è che quest'ultimo riconosca lo Stato di Israele e la logica di Oslo che ha dato nascita all'ANP. All'epoca degli Accordi di Oslo, l'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndr) aveva fatto altrettanto ottenendo, da parte di Israele, di essere riconosciuta come unica forza diplomatica politica che rappresenti i palestinesi. Per entrare nell'orbita dell'OLP, Hamas doveva emendare la propria Carta, scritta ai tempi della fondazione del movimento nel 1988. Fra 2010 e 2012, Hamas mandò alcuni segnali di cambiamento tramite alcuni leader, che si erano detti pronti a riconoscere lo Stato di Israele in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese. Nel 2017, Hamas cambia la propria Carta e si presenta come un partito storico che vuole far parte del gioco democratico palestinese. Ci sono parecchi riferimenti al pluralismo, al rispetto di processi e istituzioni democratiche e così via. Sulla questione del riconoscimento di Israele, rimane un'ambiguità. Da una parte, Hamas mantiene toni accesi contro il sionismo e si prefigge una tregua di 100 anni con Israele, fatto che da alcuni è interpretato come rifiuto di un riconoscimento definitivo. Dall'altra, all'articolo 20, Hamas dice di puntare "in base al consenso che vige in Palestina" alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme capitale dentro le frontiere del giugno '67. Dunque, come proposto da altri partiti palestinesi, uno Stato che includa Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza. Da questo punto di vista Hamas si dimostra, con il cambio del 2017 – come si dice in tedesco – salonfähig, capace di responsabilità politica, accettando a livello pratico la realtà di uno Stato di Israele. Il cambiamento di toni rispetto all'88 esiste: per alcuni è un bicchiere mezzo pieno, per altri mezzo vuoto».

Gli accordi di Abramo permettono di non risolvere la questione palestinese

Usciamo, per un momento, dalla Storia per tornare al presente. Nel mese di dicembre, il leader di Hamas Abu Marzouk aveva ventilato l'ipotesi di un riconoscimento ufficiale di Israele, ma era stato rapidamente smentito da altri vertici del movimento. Oggi, nonostante il giuramento di Israele, analisti interni ed esterni giudicano scarse le possibilità di un completo annientamento di Hamas: il discorso di un riconoscimento reciproco è destinato a tornare a fine guerra?
«Marzouk, come rappresentante dell'ala politica di Hamas, ha detto che il movimento è pronto a entrare nell'Autorità nazionale palestinese e condividere il potere con Fatah. Forse, pensano alcuni, il movimento potrebbe puntare addirittura a una fusione con Fatah. Ma per compiere questi passi, come nel caso dell'OLP, Hamas dovrebbe sottostare agli Accordi di Oslo, accettando de facto l'esistenza di Israele. Prima di Marzouk, altri leader politici di Hamas si sono detti pronti a riconoscere lo Stato di Israele. Al contrario, l'ala militare – che ha organizzato gli orrendi attacchi del 7 ottobre – si è sempre opposta. Non è chiaro quali rapporti ci siano tra le due parti e forse la vera domanda sta qui. Ammesso che si arrivi a fine guerra e sia possibile procedere con un processo di pace, come si svilupperanno i rapporti fra ala militare e ala politica di Hamas?».

Torniamo allo scorso decennio. Dopo le (fallite) pressioni di Obama, l'amministrazione Trump inaugura una nuova era. Quella degli accordi di Abramo: che cosa sono?
«Si tratta di accordi fra Israele e alcuni Stati arabi, voluti da Donald Trump con il sostegno di Jared Kushner (genero di Trump, ndr) e della sua diplomazia economica, concretizzatisi nel settembre 2020. Il processo avviene grazie a un precedente avvicinamento fra le due parti. Prima di questi accordi, i Paesi del Golfo – soprattutto Qatar, Bahrein, Kuwait, e Arabia Saudita – avevano cominciato a concedere più sostegno economico ai palestinesi a causa del progressivo disinteresse degli Stati europei. Questi avevano finanziato la costruzione di tantissime infrastrutture negli anni Novanta, con gli Accordi di Oslo, ma tutto era stato raso al suolo da Israele nella Seconda intifada e ciò aveva spinto l'Occidente ad abbandonare i progetti nella regione. La vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 ha reso necessario un inasprimento del meccanismo di controllo sull'utilizzo dei fondi inviati all'Autorità nazionale palestinese. Sin da allora ogni versamento viene controllato dieci volte, anche dalle banche, affinché non arrivi nelle mani di organizzazioni terroristiche: quindi le accuse rivolte negli ultimi mesi a ONG e organi ONU non reggono. Dal 2006, quindi, l'Occidente cede il passo ai Paesi del Golfo negli investimenti a Gaza e questo avvicinamento va a sommarsi all'interesse comune, con Israele, nella difesa dalla minaccia nucleare iraniana. Lo sviluppo di canali di cooperazione sulla sicurezza e sulla tecnologia militare fra Israele e i Paesi del Golfo crea una base su cui costruire nuovi rapporti politici negli anni 2015-2016. Un processo alimentato anche dall'inimicizia comune per la Fratellanza musulmana, un'organizzazione islamista  arrivata al potere in diversi Stati con la Primavera araba e che in Palestina è rappresentata da Hamas. Su questi interessi sono stati costruiti gli accordi di Abramo, che rappresentano un progetto di normalizzazione volto al riconoscimento dello Stato di Israele da parte dei Paesi del Golfo e a un trattato di pace per quelle nazioni arabe che, tecnicamente, si trovano ancora in uno stato di guerra con Israele dal '48-'49. L'accordo vede la firma di Emirati Arabi Uniti e Bahrain prima (2020) e di Sudan e Marocco poi (2021), con l'Arabia Saudita che avrebbe dovuto firmare presto, prima che tutto si interrompesse con il 7 ottobre. Per Netanyahu la firma sugli accordi (che non prevedono, tra i punti, il riconoscimento da parte di Israele di uno Stato palestinese, ndr) rappresenta una grande vittoria. Il premier lo diceva chiaro e tondo: gli accordi di Abramo permettono di non risolvere la questione palestinese, migliorando allo stesso tempo sicurezza e situazione economica con i Paesi del Golfo. Ma gli attacchi del 7 ottobre hanno fatto esplodere questa narrativa e i palestinesi sono ritornati al centro delle preoccupazioni diplomatiche internazionali».

Mentre i Paesi del Golfo pensavano alla normalizzazione con Israele, la situazione nella regione ha visto nuove escalation. Come le proteste al confine di Gaza andate in scena fra 2018 e 2019, o la crisi israelopalestinese del 2021.
«Il quadro internazionale disegnato da questo accordo è un arco che, partendo da Israele, va verso i Paesi del Golfo passando per Manama, Dubai, Abu Dhabi e così via, con il quale aggirare la Palestina. Ma la realtà sul terreno è che la popolazione palestinese non accetta questa dinamica di una normalizzazione senza essere chiamata al tavolo delle negoziazioni. E ogni anno circa, lancia nuove campagne di disobbedienza civile: movimenti per far capire al mondo che i palestinesi sono ancora lì. Gli episodi più importanti sono quelli da lei citati, la Grande marcia del Ritorno del 2019 e l'Intifada dell'Unità del 2021. Si è trattato, in entrambi i casi, di movimenti coordinati da palestinesi di varie fazioni politiche e reti associative: proteste pacifiche contro l'assedio di Gaza, contro l'insediamento nei territori palestinesi, contro la crescita del numero di coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est. La Marcia del Ritorno è una marcia che si sviluppa soprattutto a Gaza. Qui, nelle guerre del 2012-2014, Israele aveva istituito una buffer zone di 500 metri dal confine nelle quali era impedito ai palestinesi recarsi. Un'importante perdita di territorio che aveva spinto i palestinesi della Striscia a marce che dalle grandi città (Gaza City, Khan Younis, ecc) portavano alla barriera di sicurezza creata da Israele. Marce che, nonostante siano proseguite per mesi con il benestare di Hamas, avevano carattere pacifico. Ma sono stati numerosi i dimostranti palestinesi uccisi o feriti da cecchini israeliani. Nel 2021, poi, scoppia un nuovo episodio a Gerusalemme Est, dove case palestinesi sono prese con la forza da coloni israeliani. I palestinesi protestano contro questo nuovo episodio di colonizzazione organizzando la cosiddetta Intifada dell'Unità, unità perché ha visto la partecipazione di palestinesi che vivono in tutta la regione: da Gerusalemme Est a Gaza e Cisgiordania, ma anche di quelli che abitano in Israele (i palestinesi cittadini di Israele, rimasti dentro il confine del nuovo Stato nel 1948, ndr) e in Giordania. Un grande momento di unione in un periodo in cui Netanyahu si trovava in un momento di difficoltà e il Paese israeliano – con tre elezioni di seguito – non riusciva a istituire una maggioranza chiara alla Knesset. La risposta del governo alle manifestazioni è il pugno di ferro e alla mobilitazione palestinese Israele risponde con la forza. Episodi come questi due citati fanno capire come a più riprese, storicamente, i palestinesi abbiano attraversato momenti di disperazione che li ha spinti a esprimere con diverse modalità – a volte anche violente – che il problema palestinese non può essere risolto semplicemente con la diplomazia dei Paesi del Golfo».

Israele deve scegliere: democrazia è piena inclusione delle minoranze

Arriviamo quindi al 2023. Il nostro percorso con La Terra complessa ci ha già permesso di capire, come evidenziato a suo tempo dal segretario generale dell'ONU António Guterres, che i terribili attacchi perpetrati il 7 ottobre da Hamas ai danni dei civili israeliani non sono l'inizio, ma un nuovo capitolo di una lunga storia, difficile da raccontare. Forse vale la pena soffermarsi sui mesi precedenti.
«Nei mesi precedenti il 7 ottobre assistiamo alla continuazione di problematiche già evidenziate in queste sette puntate. Come il de-sviluppo della Striscia di Gaza o l'accerchiamento coloniale attorno a Gerusalemme Est e Cisgiordania. Netanyahu ha dato un assegno in bianco ai partiti religiosi di ultradestra, suoi alleati, i quali hanno cominciato a sentirsi sostenuti come mai dal governo. Per questo hanno dato via a operazioni come la costruzione del Terzo Tempio (dopo la distruzione del Secondo a opera dell'Impero romano, ndr), che dovrebbe avvenire sulla Spianata delle Moschee. La Torah descrive come sarà questo Terzo Tempio e quindi oggi assistiamo a una preparazione letterale, dai progetti di costruzione ai mobili che lo dovrebbero adornare. Agli ebrei non è consentito andare sulla Spianata delle Moschee, eppure negli ultimi due anni i coloni israeliani stanno avendo sempre più facilmente accesso alla zona. Posso testimoniarlo io stesso, dato che ad agosto 2023 mi trovavo a Ramallah a insegnare e ho potuto vedere come gruppi di coloni, protetti da scorte militari, si inoltrino sulla Spianata fra i fedeli intenti a pregare alla Moschea di al-Aqsa. Una provocazione fortissima. A Huwara, cittadina palestinese in Cisgiordania, nei giorni immediatamente precedenti l'attacco di Hamas si è tenuto un raduno di coloni ultraortodossi che ha comportato, per la loro protezione, lo spostamento di molte truppe israeliane normalmente stazionate lungo la Striscia di Gaza. Ma i coloni estremisti non si limitano alle provocazioni e anche nei mesi precedenti il 7 ottobre hanno lanciato atti di violenza contro i palestinesi della Cisgiordania. Le ragioni? Desiderio di possedere più terra o di avere maggiore libertà di movimento connettendo i vari blocchi di insediamento israeliani. Ci sono state occasioni in cui agricoltori palestinesi che volevano eseguire la raccolta dei propri prodotti sono stati picchiati o ammazzati. A febbraio 2023, proprio a Huwara, coloni israeliani hanno dato alle fiamme interi condominii, distruggendo tante proprietà e causando un morto e un centinaio di feriti. Una grande violenza condannata addirittura da un portavoce dell'esercito israeliano che, nel mese di marzo 2023, aveva parlato di "pogrom" per descrivere proprio questi atti di coloni ebrei israeliani contro i palestinesi. Si tratta di un esempio di violenza lenta di cui non si parla mai nei media occidentali, ma che fa da tempo parte delle strategie adottate da questi gruppi estremisti che si sentono sostenuti dal governo di Netanyahu. Due ministri, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sono figure chiave di queste operazioni. È in questo contesto che va interpretato il 7 ottobre. Da una parte il rifiuto degli accordi di Abramo. Dall'altra il rifiuto alla colonizzazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme Est . Hamas ha chiamato l'attacco del 7 ottobre "Diluvio di al-Aqsa": il riferimento alla Moschea della Spianata è chiaro».

E così arriviamo alla conclusione del nostro viaggio con La Terra complessa. Un viaggio che ci ha permesso di approfondire, almeno in parte, una storia le cui radici appaiono profondissime, e intricate. 
«Non è un caso se abbiamo cominciato questo podcast parlando degli atti di pogrom, di antisemitismo avvenuti in Europa. È importante capire che la storia della Palestina è anche la storia dell'Europa, è anche la nostra storia. L'Europa ha creato e dato più volte sostegno ai governi israeliani perché c'era questo senso di colpevolezza dell'Olocausto. E quella in corso oggi e da decenni non è una lotta identitaria. Né si tratta di una lotta religiosa, di un conflitto ebrei contro musulmani (senza considerare che, nei discorsi di politici e media, i cristiani del Levante sono completamente spariti dalla narrazione). No, si tratta di un conflitto per la terra, per il controllo delle risorse, dove le popolazioni vengono spinte di qua e di là, anche con l'uso delle armi. Non è un caso che oggi tanti osservatori descrivono la guerra in corso come una seconda nakba (catastrofe, ndr). Questa operazione di Gaza potrebbe creare un nuovo flusso di profughi palestinesi. Ma un elemento forte sul quale vorrei concludere questa discussione è quello del diritto internazionale. La risoluzione del conflitto non avviene su basi emotive, o di preferenze. Diritto internazionale e diritto internazionale umanitario ci forniscono gli strumenti per affrontare la questione. Israele esiste e ha il diritto di esistere. I palestinesi, dal canto loro, hanno diritto all'autodeterminazione, in un quadro giuridico nel quale Israele viene messo di fronte al problema dell'occupazione – illegale – dei territori palestinesi a partire dal 1967. Un approccio storico alla questione ci permette di lasciare da parte passioni ed emozioni per capire meglio i veri problemi alla base della guerra. Il futuro della regione verrà dettato dalle scelte di Israele, partendo dalla definizione che fa di se stesso. Oggi Israele si definisce uno Stato "ebraico e democratico", ma come può uno Stato essere democratico se è soltanto per gli ebrei, mentre almeno il 20% dei suoi cittadini professa un'altra religione? Israele deve scegliere: democrazia è piena inclusione delle minoranze».

La pubblicazione più recente:Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023      

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