Il discorso

«Quella di Donald Trump? Una retorica meno cupa ma con i soliti eccessi»

Marco Mariano, americanista dell'Università di Torino, analizza per il Corriere del Ticino le parole pronunciate dal presidente americano in Campidoglio
Il presidente Donald Trump con il vice, J.D. Vance alla cerimonia di insediamento. © SHAWN THEW / POOL
Dario Campione
20.01.2025 23:00

Marco Mariano, associato di Storia dell’America del Nord all’Università di Torino e autore di Tropici americani. L’impero degli Stati Uniti in America Latina nel Novecento (Einaudi, 2024), commenta per il Corriere del Ticino il discorso pronunciato da Donald Trump.

Professor Mariano, che impressione le hanno fatto le parole del presidente degli Stati Uniti?
«Donald Trump ha reiterato alcuni dei motivi di fondo della sua campagna elettorale, e da questo punto di vista non mi pare siano emerse novità significative rispetto a ciò che abbiamo sentito nei mesi che hanno portato alle elezioni di novembre. Se, invece, guardiamo al discorso di insediamento di otto anni fa, allora le cose appaiono un po’ diverse».

In che senso?
«Allora erano prevalsi toni molto più cupi, mentre adesso Trump ha messo in risalto gli aspetti positivi, le opportunità, la prospettiva di una età dell’oro che starebbe tornando, la fine del declino e il rilancio della grandezza americana. Restano, certo, critiche forti a una parte della società, dell’economia e della cultura statunitensi, diciamo al bersaglio polemico della sua campagna elettorale. Ma il tono è stato diverso, e non è mancato persino un tentativo di rassicurazione che in qualche modo contrasta con il catastrofismo dell’insediamento del 2017».

Tuttavia, è parso chiaro che Trump voglia far tornare l'America grande a scapito degli altri, ad esempio agendo sui dazi. La sua sembra poter diventare un’America contro tutti.
«Sì, è così, ed è tipico sia della retorica trumpiana sia della sua visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Le relazioni che Trump immagina sono un gioco a somma zero, in cui ogni vittoria e ogni avanzamento degli Stati Uniti sono legati a una sconfitta e a un arretramento degli altri, di nemici vecchi e nuovi. Dunque, un mondo fatto sostanzialmente di relazioni antagonistiche. Va notato, però, che almeno dal punto di vista retorico Trump ha insistito sull’eccezionalità americana, ha parlato di “destino manifesto” e di “frontiera”, recuperando alcuni elementi tipici dell’immaginario patriottico nazionalista americano che in passato non sempre aveva utilizzato».

Detto però in modo semplicistico, dichiarare guerra a Panama, durante il discorso di insediamento non è un po’ eccessivo?
«In Trump quasi tutto è eccessivo. Il problema è quando questi eccessi mettono in pericolo la stabilità del quadro internazionale o sono patentemente illegali, così come nel caso del riferimento a Panama. Riferimento che, però, riprende la campagna repubblicana contro il trattato del 1977 con il quale Jimmy Carter restituiva il canale al piccolo Paese centroamericano. Nella questione di Panama, nei riferimenti così aggressivi e muscolari, vedo fondamentalmente una strizzata d’occhio di Trump alla base e all’elettorato repubblicano e sovranista».

Che cosa potrebbe succedere, secondo lei?
«Difficile dirlo, gli Stati Uniti non possono riprendere il canale se non violando la legalità internazionale. Spaventa, certamente, che queste rivendicazioni, questi proclami, siano basati su una serie di affermazioni false e senza alcun riscontro nella storia e nell’attualità, come quella secondo cui sarebbe la Cina a gestire il canale».

E la Groenlandia? Trump ha parlato chiaramente di “espansione territoriale” tra gli obiettivi che gli Stati Uniti dovranno perseguire. Un’affermazione in qualche modo inquietante.
«La questione della Groenlandia mi sembra più seria delle altre per molti motivi, a partire dalla sua posizione geografica, dalle trasformazioni delle rotte artiche e dalla ricchezza di materie che la caratterizza. La Groenlandia potrebbe essere un obiettivo perseguito con maggiore determinazione, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. In particolare, la rotta di collisione con l’Europa e con la NATO. Perché se anche non si arrivasse al limite estremo dello scontro militare, la tensione attorno alla Groenlandia potrebbe disarticolare in qualche modo i rapporti di alleanza tradizionali degli USA con l’Europa occidentale e mettere in crisi un’organizzazione qual è, appunto, l’Alleanza Atlantica arrivando sino a un punto non meglio identificabile al momento. Questo è un aspetto inquietante».

Tre cose ancora, le chiedo. La prima riguarda le politiche ambientali. Trump ha decretato la morte del Green New Deal. Si tratta di una scelta legata inevitabilmente alle promesse fatte ai suoi elettori o c’è altro?
«Questo è un altro degli aspetti inquietanti ma prevedibili del discorso di insediamento, qualcosa che non sorprende. L’insistenza di Trump sulle trivellazioni “ovunque sia possibile” va letta ovviamente come sostegno più o meno indiretto all’industria petrolifera americana, ampiamente schierata dalla sua parte. Ma non c’è solo questo: nella riscoperta dell’oro nero, del sottosuolo come risorsa, c’è anche la riaffermazione della grandezza nazionale, che Trump associa al primato industriale e manifatturiero degli Stati Uniti, oltre che al ritorno in una posizione dominante nel mercato dell’energia internazionale. Il ritorno al petrolio, inoltre, viene venduto come strumento per l’abbassamento dei prezzi dell’energia e, quindi, come misura anti-inflazione».

Qualcosa di già sentito.
«Esatto, è l’esplicito sostegno a un’economia diversa dalla “New Economy”, l’economia delle fabbriche, della produzione automobilistica. Un ritorno al passato che spesso è stato vagheggiato, ma raramente poi ha preso forma concreta. Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump aveva già utilizzato molte di queste parole d’ordine, ottenendo però risultati molto limitati».

La seconda questione che le pongo riguarda la libertà d’espressione, che Trump ha detto di voler ripristinare. In un Paese in cui un emendamento costituzionale impedisce di legiferare contro la libertà di stampa, quella del presidente americano è parsa piuttosto una rassicurazione ai colossi del Web, i cui proprietari erano peraltro schierati alle sue spalle. Uno scambio di favori.
«In realtà, lo scambio sembra già in parte avvenuto con la decisione di Meta di mettere da parte il fact checking su Facebook e Instagram. Il riallineamento non solo di Meta, ma di buona parte della galassia dei grandi operatori della New Economy e dell’informazione, ha varie ragioni. Io però non dimenticherei quella che, forse, può sembrare la più banale, ma che probabilmente è anche decisiva: mi riferisco alla ragione fiscale. Quando Trump propone aliquote vantaggiose per le imprese e per i guadagni da capitale, fa già abbastanza per giustificare un riallineamento che vediamo in atto già da un po’ di tempo».

L’ultima questione è invece l’Ucraina. Trump non ne ha parlato. Aveva promesso di fermare la guerra il giorno dopo il suo insediamento, ma nel discorso ha preferito non toccare l’argomento. Perché, secondo lei?
«Questo è un rilievo interessante. Se prendiamo i due grandi conflitti in corso, il presidente americano ha fatto riferimento soltanto alla liberazione degli ostaggi a Gaza, con un malcelato tentativo di appropriarsi di quel risultato. Era difficile dire qualcosa sull’Ucraina, anche perché c’è una situazione abbastanza delicata pure all’interno dello stesso partito repubblicano e della sua rappresentanza in Congresso, da cui dipende la continuazione degli aiuti militari a Kiev. Non c’è evidentemente una posizione chiaramente definita al momento, e non è chiaro che tipo di discontinuità potrà esserci rispetto all’amministrazione Biden, se e fino a che punto ci sarà discontinuità. Inoltre, Trump si trova in una situazione difficile anche dal punto di vista dei rapporti con la Russia».

Perché?
«Perché molto spesso gli è stata imputata una eccessiva vicinanza a Vladimir Putin, e poi perché le promesse sulla fine del conflitto sono state reboanti ma non hanno ancora sortito alcun effetto. Glissare su questo argomento è sembrato, molto probabilmente, l’unico modo possibile per togliersi d’impaccio da una situazione in cui, di nuovo, i grandi proclami e la poesia della campagna elettorale si stanno scontrando con la prosa della realtà. I risultati concreti, se ci saranno, sicuramente non saranno immediati».

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