L'editoriale

Il fascino discreto del giocatore più amato

Nel ruolo più delicato ed emotivo, quello di ultimo baluardo della Nazionale, Yann Sommer ha saputo farsi apprezzare più di ogni compagno - E ciò nonostante una leadership misurata, talvolta soffocata
Massimo Solari
19.08.2024 19:30

Yann Sommer è stato il giocatore più amato della storia moderna della Nazionale. Il che, si badi bene, non significa essere il più ammirato, il più idolatrato e nemmeno il più forte. Altri rossocrociati hanno indossato questi panni. E, non a caso, la leadership del portiere è sempre parsa una sorta di ossimoro: misurata. Talvolta soffocata. L’uscita di scena dell’estremo difensore dell’Inter, dunque, non poteva scostarsi da una dimensione gentile. Oltre che per l’altezza e per i modi, Sommer ha abbracciato la discrezione anche al momento del commiato. Svizzero, comunque, il 35.enne nato a Morges ha voluto esserlo fino in fondo e con coerenza. Aveva pianificato i saluti con puntualità e rispetto, ecco perché la notizia della nuova gerarchia fra i pali - decisa da Murat Yakin e rimbalzata sui media giovedì - non gli è andata giù.

Ad accompagnare il ritiro di Sommer, in questo senso, è stato un sussulto d’orgoglio. Quello di un portiere che, buone maniere o meno, non ha mai rinunciato all’ambizione. Prima di Gregor Kobel e della sua frustrazione, era stato Roman Bürki a definire «ingrato» il ruolo di secondo portiere della Nazionale. Lo strettissimo legame tra Sommer e il preparatore Patrick Foletti, d’altronde, si è ben presto trasformato in un muro praticamente invalicabile.

Ricondurre la supremazia di Sommer al feeling con un elemento cardine dello staff tecnico, però, sarebbe ingeneroso. Eccome. Perché a dire addio, dopo 94 gettoni e cinque grandi tornei vissuti in primo piano, è - né più, né meno - il miglior portiere rossocrociato di ogni epoca. Per questa ragione l’avvento di Kobel non può essere preso sottogamba. Al netto delle qualità indiscutibili del giocatore del Borussia Dortmund, eletto miglior portiere della Bundesliga al termine della scorsa stagione, ci sono una costanza di rendimento e un’attitudine - entrambe impressionanti - da confermare. Kobel sin qui ha disputato solo cinque gare con la maglia della Svizzera, per altro non facendosi problemi a saltare alcuni ritiri a causa di un’insofferenza mascherata con imprecisati infortuni. Sia chiaro, a 26 anni e a suon di ottime prestazioni a livello di club, Kobel si è meritato l’intronizzazione di Yakin. Era davvero il momento giusto. Ma il diretto interessato ha ancora tutto da dimostrare. E, dettaglio non indifferente, è chiamato a farlo nel ruolo più delicato insieme a quello del capitano. Insomma: nel quadro di una Nazionale che sta cambiando pelle, il passo indietro di Xherdan Shaqiri - per quanto altrettanto simbolico - ci preoccupa meno. Anche perché la Svizzera aveva deciso di privarsi dello spessore di «XS» prima degli inebrianti Europei tedeschi.

Rispetto all’ex compagno di squadra, fresco di ritorno al Basilea e a differenza del suo predecessore Diego Benaglio, Sommer ha atteso diverse settimane per annunciare pubblicamente la sua decisione. Un lasso di tempo sospetto, stando ad alcuni addetti ai lavori, e ciò considerato il cambio della guardia prospettato dal commissario tecnico. Oddio, è possibile. È umano, aggiungiamo. L’insinuazione, tuttavia, è sintomatica circa la rigidità con cui - a differenza dei tifosi e delle tifose, come pure degli sponsor che lo hanno sempre piazzato in cima alla lista dei corteggiati - i media hanno di tanto in tanto valutato le prestazioni dell’estremo difensore nerazzurro. Prendete i recenti rigori contro l’Inghilterra, fatali alla Svizzera nell’ambito di un Europeo che assomigliava a un sogno. Di colpo la porta sbattuta in faccia a Kylian Mbappé, sinonimo di gloria, o il guizzo per mettere in imbarazzo Jorginho e l’Italia, sono stati sacrificati sull’altare dell’incompetenza. «Ma come? Non era un para-rigori?». Un giudizio oggettivo per l’occasione, d’accordo, e però severo. Ingiusto, anche.

Sommer è riuscito a esercitare con fascino ed efficacia il ruolo più emotivo: ultimo baluardo della Nazionale e, di riflesso, della Nazione. E - come ammesso nel giorno di un annuncio speciale e al contempo sofferto - non sorprende che l'«highlight» in rossocrociato sia stato l’ottavo di finale di Euro 2020 vinto con la Francia. Talvolta soffocata, a Bucarest la leadership discreta e gentile di Yann aveva potuto tracimare dagli argini. Una volta, una sola. Eccezione di una carriera eccezionale. Quella del giocatore più amato della storia recente della nazionale svizzera.

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