Il libero commercio secondo le regole dettate da Trump
Durante la campagna presidenziale è stato uno dei punti più citati del programma elettorale. Il forte aumento dei dazi commerciali nei confronti delle merci importate negli Stati Uniti dalla Cina in primis, ma anche del resto del mondo, dovrebbe essere uno dei primi ordini esecutivi che firmerà Donald Trump all’inizio del suo secondo mandato alla Casa Bianca. Il tentativo di riequilibrare il forte disavanzo commerciale degli Stati Uniti verso l’estero è già stato uno dei punti forti dell’esponente repubblicano durante il suo primo quadriennio tra il 2017 e il 2021. Anche in quell’occasione il mantra della campagna elettorale di Trump era di privilegiare gli interessi americani anche a costo di rovinare i rapporti con gli alleati occidentali storici. Del resto, lo slogan America First con il corollario del Make America Great Again (facciamo di nuovo l’America grande) riassume in modo comunicativamente molto efficace e immediato le intenzioni di un ritorno a una politica economica e commerciale con al centro gli Stati Uniti. Libero commercio sì, ma alle mie condizioni è il sottinteso neanche troppo implicito del suo messaggio.
Durante la campagna elettorale del 2016 e nei primi giorni della sua presidenza, per esempio, Trump fece diverse promesse riguardanti i dazi e il commercio. Annunciò il ritiro dall’accordo multilaterale definito Trans-Pacific Partnership (TPP) e così fu. Aveva promesso di rinegoziare e riformare il NAFTA, l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico e ritenuto anche da parte dei democratici troppo squilibrato e sfavorevole agli interessi statunitensi. L’annuncio del ritiro USA portò alla negoziazione e ratifica di un nuovo accordo, l’USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) non denunciato comunque dall’amministrazione del presidente Joe Biden. Contro le merci cinesi aveva annunciato dazi commerciali definiti punitivi. Nel mirino c’erano le pratiche commerciali della Cina ritenute sleali, come il furto di proprietà intellettuale e la manipolazione della valuta. Questa seconda accusa aveva anche sfiorato la Svizzera con il Dipartimento del Tesoro statunitense che giudicava troppo elevato l’avanzo commerciale elvetico nei confronti degli Stati Uniti e “manipolatoria” la politica della Banca nazionale svizzera che continuava ad acquistare valute estere allo scopo di “indebolire” il franco. Si era all’inizio del 2020 e la BNS tentava semplicemente di evitare una sopravvalutazione della propria valuta in una lotta contro il pericolo deflazione che era praticamente globale. Tutte le principali banche centrali allora, compresa la potente Federal Reserve, facevano a gara per indebolire la propria moneta.
Ora il gioco della minaccia dei dazi commerciali ritorna, anche se l’amministrazione Biden non è stata più liberoscambista della prima presidenza Trump. L’IRA, l’Inflation reduction act di Biden e le misure per incentivare la produzione di chip e semiconduttori, non sono altro che piani miliardari di sussidi mirati ad aziende americane e straniere che investono in tecnologia Made in USA. Dazi, mascherati, insomma che hanno mostrato la debolezza europea, intesa come UE, in materia di politica industriale e tecnologica. Sullo sfondo però c’è la competizione con la Cina, unica superpotenza che in prospettiva può contrapporsi agli Stati Uniti non solo dal punto di vista economico. Ma al di là di come finirà la “guerra dei dazi” con i nemici – un accordo anche a muso duro alla fine si troverà - è con gli “amici”, i Paesi dell’UE e della NATO, che potrebbero esserci più problemi. La tentazione di trattarli da vassalli da chi è abituato a parlare a voce alta, è più forte. E qualche leader europeo sarà anche lieto di essere trattato come tale.