«La filiera dell'oro merita ancora approfondimenti»

In un ufficio all’ultimo piano della Dogana commerciale di Chiasso Fabio Meroni ha disegnato una mappa stilizzata del Ticino. Con il pennarello cerchia il confine: «Qui è stata commessa l’infrazione doganale» spiega. Poi il pennarello sale e traccia un’area più ampia, che sale nel Mendrisiotto. L’illegalità non si ferma alla frontiera.
Meroni è capo gruppo dell’antifrode doganale e ha ricostruito passo passo i movimenti del “fiume d’oro” che nell’arco di cinque anni è entrato in Ticino illegalmente dall’Italia. Sette tonnellate possono sembrare poche, se si considera che solo l’anno scorso al confine sud sono stati importati legalmente 45.500 kg, per essere lavorati nel distretto di Mendrisio. Ma per le dimensioni del mercato nero «parliamo di importi decisamente notevoli» sottolinea Meroni.
Il cervello dell’organizzazione, un 65.enne di Lanzo d’Intelvi con diversi precedenti specifici, sarebbe riuscito a vendere in Ticino circa 5 tonnellate di oro, intascando qualcosa come 180 milioni di franchi (circa 2 tonnellate invece sarebbero state vendute in Liechtenstein, per una settantina di milioni). Sul territorio cantonale il 65.enne avrebbe messo in piedi una rete di prestanome e società create ad hoc, che «ripulivano» il metallo rivendendolo o trasformandolo presso una fonderia ticinese. «Il ricavato - spiega Meroni - tornava in Italia sotto forma di lingotti da investimento oppure di contanti, e serviva a finanziare nuovi acquisti».
Al centro di tutto c’era lui, il capobanda. Residente in Ticino per alcuni anni, oggi è tornato a vivere in Italia dove ha patteggiato di recente una condanna per ricettazione e contrabbando. Anche se non figurava nella maggior parte delle operazioni («il suo ruolo è diventato con il tempo sempre più evanescente, più prudente») secondo gli inquirenti «era lui a fissare il prezzo nelle compravendite e a decidere gli incarichi e i compiti» all’interno dell’organizzazione.
Questa era composta, oltre confine, da alcune decine di «spalloni» di lungo corso. I funzionari delle Dogane svizzere - che hanno agito coordinandosi con la Procura di Como, tramite rogatoria - sono riusciti a identificarne solo una parte. «In alcuni casi si tratta di veterani del settore, che hanno già avuto in passato a che fare con la giustizia e provengono dal retroterra storico del contrabbando trasfrontaliero». L’oro era raccolto nel nord Italia da una rete di «responsabili di zona» che - a quanto è emerso - si rifornivano negli ambienti della malavita e nel mercato nero: poi veniva fuso in laboratori clandestini e nascosto in auto appositamente manomesse con la complicità di un’autofficina. Quindi attraversava il confine, dove era preso in consegna dai «ripulitori».
In Ticino l’inchiesta condotta dall’UDSC ha coinvolto inizialmente «diverse persone» che avrebbero contribuito a vario titolo a movimentare l’oro «sporco». Tra gli acquirenti finali del metallo, come detto, ci sarebbero una socetà di trading e una fonderia ticinese che, nell’arco di cinque anni, avrebbe acquistato o lavorato oro per decine di milioni di franchi «rigorosamente in contanti». Un’anomalia che non ha mancato di insospettire Meroni e colleghi: «Abbiamo chiesto chiarimenti all’azienda che ha potuto dimostrare come gli acquisti sono avvenuti a fronte di una documentazione apparentemente impeccabile, a giustificazione della provenienza del materiale» prosegue il funzionario.
Peccato che l a documentazione, presentata dal «capobanda» e dai suoi prestanome, fosse totalmente falsa. Gli acquirenti in buona fede non potevano saperlo e per questo «non sono state promosse accuse nei loro confronti» chiarisce Meroni. Ma anche i prestanome - tra cui figurano sia cittadini italiani residenti in Ticino che frontalieri - hanno evitato l’incriminazione di fronte al Tribunale penale cantonale in quanto «nei loro confronti non sono emersi sufficienti indizi di presunta colpevolezza ed elementi di rilevanza penale». Alla fine davanti al giudice comparirà (forse) il capo dell’organizzazione: nessun altro. Ma la vicenda dimostra come «la filiera dei metalli preziosi in Ticino nonostante gli sforzi di tracciabilità e i controlli è ancora meritevole di approfondimenti» sospira Meroni. Una falla da cui continuano a entrare, a tonnellate, soldi ma anche guai giudiziari.