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Calcio, storia e identità s'incontrano al Letzigrund

Domani sera la Nazionale sfida il Kosovo in un’amichevole carica di significati – Granit Xhaka, alla 100. presenza in rossocrociato, Xherdan Shaqiri e Andi Zeqiri faranno i conti con le proprie radici – Il politologo Bashkim Iseni: «La Svizzera è riuscita laddove l’ex Jugoslavia ha fallito»
Massimo Solari
28.03.2022 17:57

Nel mondo dell’arte, è noto come trompe-l’oeil. Il genere di pittura, cioè, in grado di ingannare chi osserva. Come? Attraverso l’illusione della tridimensionalità. Ecco, se fosse un quadro, Svizzera-Kosovo potrebbe trovare spazio in un’esposizione dedicata a questa particolare tecnica. Non solo la dimensione sportiva, quella della semplice amichevole. No. Il match in programma domani sera a Zurigo (ore 18) assumerà altre due consistenze. Storica e identitaria. Come triplice, in fondo, è il sentire di molti protagonisti in campo. Un po’ elvetici, un po’ kosovari. Un po’ entrambi. Al Letzigrund, non a caso, ci si mischierà. In una festa da tutto esaurito. Ancor prima della Nazionale, d’altronde, ospitante era stata la Nazione. Aperta e solidale con l’ondata di profughi scappati dai conflitti che hanno sfiancato i Balcani negli anni Novanta.

«Poco importa, quindi, chi vincerà: perché ad avere successo saranno sia dei kosovari della selezione svizzera, sia degli svizzeri della formazione kosovara». A esserne convinto è Bashkim Iseni, politologo e fondatore del portale Albinfo.ch, che dal 2009 pubblica notizie regionali e nazionali in tedesco, francese e albanese all’indirizzo della popolazione albanofona in Svizzera. Si parla di 250.000 persone, delle quali circa 200.000 originarie del Kosovo. «Fra loro c’è una generazione d’oro, quella dei Behrami, Xhaka, Shaqiri, Mehmedi, Dzemaili eccetera, che ha dato tantissimo alla Nazionale rossocrociata. Ma, allo stesso tempo, ha fatto molto per abbattere le differenze, combattere gli stereotipi. Questo lavoro, dal punto di visto storico, è stato potentissimo. Ha infatti permesso di trasmettere un messaggio agli albanesi del Kosovo: che quella svizzera, in fondo, era anche la loro nazionale».

Un percorso salutare

Iseni, al proposito, parla della «sacralizzazione» di giocatori che il calcio ha trasformato in simboli. Su un fronte come sull’altro. «Siamo di fronte a icone identitarie. Nel senso multiplo del termine. Poiché nell’animo della stessa persona convivono l’appartenenza, beninteso alla Svizzera, e le radici kosovare. Di qui l’enorme impatto verso le giovani generazioni. Con la messa in relazione di due culture che un tipo di narrazione vorrebbe invece far scontrare». Oddio, non è stato per nulla facile. Non lo è tutt’ora. Un percorso, già, fatto di scetticismo e frizioni. Di razzismo, anche. «Ogni percorso - osserva Iseni - ha i suoi incidenti. E Svizzera-Albania del 2012, quando a Lucerna i tifosi ospiti fischiarono ripetutamente Behrami, Shaqiri e Xhaka, lo è sicuramente stato. Per assimilare l’appartenenza multipla dei giocatori in questione è servito del tempo. In seno alla popolazione svizzera così come a quella albanese, ricca di sfaccettature. Ad ogni modo, ritengo che questo cammino sia stato salutare e che la pendenza, ora, sia positiva. Personalmente non dimenticherò mai gli Europei del 2016, a Lens, quando la Svizzera sfidò l’Albania. Ero presente con mio figlio e al termine dell’incontro - nonostante la delusione per la sconfitta - i tifosi albanesi si unirono a quelli elvetici. Per mangiare, ballare, festeggiare. Fu bellissimo. Come in un sogno».

Esultando in quel modo, Xhaka e Shaqiri non fecero quindi altro che sottolineare di esistere: in qualità di popolo, con la sua etnia e la sua cultura
Bashkim Iseni, politologo e fondatore del portale Albinfo.ch

I cortocircuiti

Tutto molto bello, già. Peccato che due anni più tardi, ai Mondiali del 2018, il cortocircuito risultò totale. Ricordate? I gesti dell’aquila bicefala di Shaqiri e Xhaka macchiarono la vittoria con la Serbia e altresì il torneo rossocrociato. «Si trattò di una chiara provocazione, certo, oltre che di un episodio che ha segnato gli animi attorno alla Nazionale» ammette Iseni, passaporto macedone e in Svizzera dal 1989. «I diretti interessati, però, risposero al disprezzo rivolto loro dalle tribune, con i tifosi serbi decisi a fischiare e insultare dei giocatori non per le loro azioni, ma per quello che erano e sono. Una forma di razzismo che ricorda molto quanto accadde agli ebrei. Esultando in quel modo, Xhaka e Shaqiri non fecero quindi altro che sottolineare di esistere: in qualità di popolo, con la sua etnia e la sua cultura. Un popolo - con le rispettive famiglie - traumatizzato dalla storia. Di più: nientemeno che il capitano di allora, Stephan Lichtsteiner, volle schierarsi al fianco dei compagni e dei loro ideali».

E i dubbi malsani

Il rischio, in questi casi, è che il simbolo si trasformi presto in bersaglio. O in capro espiatorio. Gli stessi Xhaka e Shaqiri, per dire, sentirono il dovere di chiedere scusa ai tifosi. «Purtroppo - indica Iseni - persiste un riflesso negativo, in una minoranza dell’opinione pubblica, che spinge a mettere in dubbio la lealtà di alcuni giocatori verso la maglia. Un dubbio malsano che è lì, in agguato, qualora la prestazione in campo si riveli insufficiente. A fronte del bolide sportivo utilizzato - come per altro molti compagni - per raggiungere i raduni. O ancora perché dopo una rete si è preferito non esultare in segno di rispetto. Ma io dico: l’importante è che la rete venga realizzata. Per il bene di una squadra - e di riflesso un Paese - che è riuscito laddove l’ex Jugoslavia ha fallito». Prendete Ragip Xhaka, papà di Granit: oggi, sul Blick, si è detto «eternamente grato» alla Svizzera. Raccontando delle torture subite in prigione alla fine degli anni Ottanta, vicino a Pristina, prima di scappare e ricostruirsi una vita a Basilea. Il figlio, oggi, celebrerà la 100. presenza in Nazionale. Proprio al cospetto del Kosovo. «Provo delle sensazioni straordinarie» ha confessato il capitano. «Potrò disputare questo match speciale, giocando per la Svizzera, e al contempo affrontare una squadra che è parte del mio cuore». Il ct Murat Yakin, in merito, ha dosato la comprensione. «Prima della gara Xhaka, Shaqiri e Zeqiri vivranno delle sensazioni forti. Una volta in campo, però, confido nella loro professionalità». Xherdan, in conferenza stampa, ha da parte sua preferito dribblare le emozioni. «Mi preparerò normalmente. Dopotutto ho giocato partite più importanti». Verità o tipico esempio di trompe-l’oeil?

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