Croci-Torti senza freni: «In dodicimila a Berna, poi imitiamo lo Zurigo campione»
Un mese. Al grande ballo del Wankdorf, il 4 giugno, manca un mese esatto. Per il secondo anno consecutivo - e dopo il trionfo della scorsa edizione - il Lugano potrà tornare a vestire l’abito della festa. E inseguire uno storico bis in finale di Coppa Svizzera contro lo Young Boys. C’è tanto in gioco. Per il club. Per il futuro della squadra. Per Mattia Croci-Torti.
Se affermassimo che questa finale conta un pochino meno per il Lugano - che nel 2022 ha spezzato un lungo digiuno ed è oggettivamente sfavorito - e un pizzico di più per la carriera di Mattia Croci-Torti, quali riflessioni susciteremmo nel mister bianconero?
«Mi è difficile dare una connotazione individuale alla partita del 4 giugno. No, dall’alba del nuovo percorso in Coppa ho concepito l’eventuale successo come l’opportunità di entrare di diritto nella storia dell’FC Lugano. Per sempre. Nel 1992 e 1993 le finali consecutive furono due, ma il trofeo venne alzato una sola volta. Di qui l’obiettivo condiviso con la squadra sin dal primo turno con il Linth: firmare il bis per realizzare un’impresa unica per la società. E per il calcio ticinese».
«Non sono mai stato un arrivista. Anzi, con grande serenità non ho mai perso di vista i miei limiti». Lo affermasti un anno fa, nell’intervista al CdT per il tuo 40. compleanno. Eppure, vincere la Coppa per due volte di fila e regalare al Lugano la fase a gironi di una competizione europea non potrebbe spingere Mattia Croci-Torti a voler arrivare altrove? Più in alto e con altri? Sarebbe umano. Perché quei limiti lì, significherebbe averli superati alla grande…
«Le ambizioni alimentano qualsiasi essere umano. Me compreso. Voglio però essere sincero: a ogni allenamento noto quanto la società stia cercando di migliorare. In ogni settore. Insomma, e a proposito di limiti, sento di lavorare per un club che non se ne pone. E che, dunque, fa tutto fuorché marciare sul posto. Il dialogo è continuo, così come il desiderio di sviluppare la squadra e migliorare i risultati. Basta osservare la situazione attuale: rispetto alla scorsa stagione (e all’ultima finale di Coppa), dispongo di una rosa più importante, nei numeri e sul piano qualitativo. In vista del 4 giugno, e per replicare “quella partita”, non sarò di nuovo obbligato a risparmiare - uno a uno - i singoli protagonisti. Quando mi giro, durante un match, so di avere un collettivo più competitivo, più soluzioni. Per questa ragione non ho pensieri che mi spingono lontano da Lugano, sia che si raggiungano gli obiettivi più grandi, sia che essi sfumino. La mia voglia di progredire è quella della dirigenza».
C’è poi questa sensazione di tutt’uno, fra club, piazza e allenatore, a maggior ragione alla luce degli ottimi risultati e del fatto che il nuovo corso sia stato costruito anche con la tua nomina. Va bene così o, alla lunga, la dinamica rischia di diventare pericolosa?
«Faccio alcuni passi indietro: solo una decina di giorni fa, perdere con il Sion avrebbe significato finire a sole 4 lunghezze dallo spareggio per non retrocedere. Il calcio è uno sport che va veloce e che si basa unicamente sui risultati. Il tutt’uno di cui parli regge proprio perché la classifica è favorevole. E forse perché, grazie a poche partite perse, è emersa una chiara identità di squadra. È giusto cavalcare questa dinamica, purché lo si faccia mantenendo i piedi a terra. Se riusciamo a farlo, togliersi altre soddisfazioni sarà possibile».
Una scena ci ha colpito in questo senso: il 10 aprile scorso - quando ai 3 punti piaceva negarsi e cadeva il giorno del tuo compleanno - il Lugano aveva dovuto digerire un boccone amarissimo, l’ennesimo, a seguito del pareggio all’ultimo respiro strappato dal San Gallo a Cornaredo. Nel post-partita era emerso tutto il tuo sconforto e anche una certa fragilità. Malgrado rabbia e delusione, non ti eri però sottratto a un brindisi con i tifosi, rimasti allo stadio per farti gli auguri. Tu, quale valore attribuisci a quegli istanti in parte contraddittori?
«Alla fine di una partita è giusto rimanere se stessi. Nei momenti buoni e in quelli cattivi. L’ho sempre fatto, già da viceallenatore, ai tempi burrascosi del Chiasso. Nascondersi di fronte alle difficoltà rappresenta un segno di debolezza. Che non mi appartiene. Più in generale, conta avere la coscienza a posto, lavorare quotidianamente e sapere di aver fatto il possibile per centrare il risultato. È una questione d’atteggiamento. Poi, va da sé, è altresì doveroso recriminare sui dettagli, come in occasione di quel pareggio».
Citiamo ancora l’intervista per i tuoi 40 anni: «Tutti mi conoscono, tutti hanno delle aspettative di un certo tipo. E rimanere il Crus di sempre, in questa nuova dimensione, non è così evidente». Questo prima di riportare la Coppa in Ticino a 29 anni di distanza. Rimanere il «Crus di sempre», dopo quel giorno, è stato inevitabilmente più complicato?
«In realtà è stato semplice al di fuori della sfera privata. Le difficoltà, semmai, hanno interessato proprio la famiglia e gli amici più cari. Chi fa questo lavoro è chiamato a gestire parecchie pressioni. Sfogarsi o cercare solitudine e quiete diventa una necessità conseguente. Riuscire a soddisfarla, tuttavia, non è sempre possibile nella quotidianità (Croci-Torti sospira, ndr). È un sentimento difficile da spiegare. Ma, appunto, è stato quello che ha intaccato l’essere “il Crus di sempre” per alcune figure a me vicine».
La mente, restando al legame con la piazza e all’amore
viscerale per i colori, corre all’Ambrì Piotta e al suo condottiero Luca
Cereda, riconfermato dopo tante speculazioni. Chi mollerà prima il Ticino: il
Crus o l'amico Cere?
«Vediamo, sarà una bella lotta (ride, ndr). Le nostre, in
ogni caso, sono situazioni molto diverse. Io ho la fortuna di allenare un
gruppo di giocatori che, strategicamente, viene coordinato da altre persone. A
differenza del sottoscritto, Luca e Paolo Duca determinano invece la permanenza
o la partenza dei singoli giocatori. E questo è un onere pesante, perché chiama
in causa i legami personali e - a volte - porta all’interruzione di un rapporto
di lavoro. Una fatica doppia, insomma, che credo abbia pesato e fatto riflettere
Cereda. Ben venga, quindi, che la società abbia voluto fare chiarezza, circa
ruoli e aspettative».
Sulle nostre colonne, in febbraio, Georg Heitz aveva suggerito possibili deviazioni di percorso. Svolte, anche. «Croci-Torti deve essere un profilo interessante per altri club» le parole del braccio destro di Joe Mansueto. A questo punto della tua carriera, da allenatore più che mai credibile, è uno scenario che devi considerare o che cerchi di tenere a distanza di sicurezza?
«Chi sceglie di diventare un allenatore di calcio sa bene che non potrà rimanere per sempre nello stesso luogo. Le valigie devono essere sempre pronte. Anche per questo motivo, ora mi godo l’esperienza da tecnico del Lugano. Guidare la squadra faro del mio cantone, per di più vicino ai miei cari, è un dono prezioso. Raro per molti colleghi. Poi c’è anche dell’altro. Un pensiero. Forse un’ossessione...».
Quale?
«Riuscire a essere lo Zurigo della scorsa stagione».
Il Lugano campione svizzero? Prima della nuova arena e dunque del consolidamento del progetto sportivo voluto dalla nuova proprietà?
«Assolutamente. Ripeto: è un pensiero continuo. Un assillo che mi nutre. Riuscirci, d’altronde, avrebbe del clamoroso. Sarebbe devastante. E me lo sono chiesto anche per questa stagione. Cosa sarebbe successo se avessi sempre beneficiato di una rosa al completo? E se lo Young Boys fosse rimasto in corsa in Europa, perdendo energia in campionato e favorendo l’emergere di un outsider come il Lugano? Per dire: pensando agli attuali buchi sulle tribune di Cornaredo e pensando alla “bolgetta” che potrebbe nascere la prossima stagione con quelle provvisorie in curva, mi carico da solo».
Le camminate serali continuano a essere un toccasana per la tua mente?
«Come suggerivo, i momenti di solitudine, per riordinare le idee, sono ossigeno. A maggior ragione in questa fase della stagione, con le scelte da compiere che iniziano a essere fondamentali. Prima di prenderle il giorno dopo, bisogna avere la lucidità per analizzarle a fondo, per crederci veramente».
A nutrirti, raccontasti, sono anche i sogni. Lo Young Boys, questo Young Boys, si può battere solo in un sogno o anche in una partita secca, disputata nella realtà incandescente di Berna?
«La verità è che questo “incandescente” non ci dovrà essere. Se, come sono sicuro, i tifosi bianconeri aiuteranno la mia squadra, giocare al Wankdorf sarà diverso anche per l’YB padrone di casa. Ne sono profondamente convinto. Uscire dal tunnel degli spogliatoi e trovarsi di fronte metà stadio colorato di bianco e di nero può costituire uno choc, un fattore anche, in grado di influenzare la sfida. Da giovane ho amato un film su Cantona, Looking for Eric, nel quale il protagonista sottolineava un aspetto: nella vita ci sono molte più opportunità di quelle che ci possiamo immaginare. Ecco, sono certo che la finale di Coppa Svizzera custodisca molte più opportunità di quelle in cui crede la maggior parte della gente. Però ripeto: serve qualcosa di speciale, un pubblico ancor più numeroso di quello della scorsa finale, pronto a caricarci e al contempo a destabilizzare il nostro avversario. Diecimila? No, per far cambiare le prospettive della partita - per accrescere le opportunità di farcela citate da Cantona - abbiamo bisogno di 12.000 tifosi».
Intanto, e a pochi giorni dall’inizio della prevendita, siamo già a quota 9.200: i tifosi ticinesi non sembrano accontentarsi…
«Ogni persona che incontro e mi dice “ci sarò a Berna” è benzina. Penso che tutta questa gente abbia riconosciuto il valore della nostra stagione. E il fatto che, anche nelle difficoltà, non abbiamo mai mollato».
Il Lugano è in piena corsa sia per una doppietta straordinaria, sia per un posto (già) al sole in Europa: percepisci un’unica, grande responsabilità, o pressione e opportunità presentano sfumature differenti a seconda dell’obiettivo?
«Parlerei di una responsabilità unica. A differenza della scorsa stagione, il pacchetto “Europa+Coppa” è sempre stato promosso con la stessa determinazione. E anche il mio messaggio alla squadra non è stato calibrato a seconda della competizione. Come affermavo poc’anzi, e tolta forse la rinuncia ad Aliseda nel match che ha preceduto la semifinale con il Servette, non ho mai vissuto di scelte e speculazioni. Sarà così sino al termine del campionato, per il quale cercheremo di dare tutto».
In questi casi il confine fra successo e fallimento diventa sottilissimo. Avrai sicuramente letto e soppesato le parole di Giannis Antetokounmpo, stella dei Bucks eliminati a sorpresa all’alba dei playoff di NBA. Stai dalla parte dell’atleta greco o mettersi a posto la coscienza con un paio di considerazioni e paragoni sagaci rimane una semplice scappatoia?
«Può apparire come una scappatoia; dopo tutto i Bucks erano favoritissimi per il titolo. Ma c’è anche del vero. Soprattutto negli ultimi anni, con i social che hanno spalancato le porte alla critica facile e talvolta feroce, il nostro lavoro è diventato più complicato. Le parole possono fare male e, sovente, non indagano i sacrifici dello sportivo o la squadra di turno. Sacrifici magari vanificati da un solo canestro o un tiro sbagliato. Prendiamo il caso del Lugano: negli ultimi 55 giorni, quelli liberi sono stati 6. Saranno 3 nei prossimi 35. Significa togliere tempo, tanto tempo, alle persone a noi più vicine. Significa stare sempre sul pezzo con la testa e con il fisico, magari soffrendo perché si gioca meno del compagno o si è infortunati. Sono tutte variabili, ma alla fine vincerà solo una squadra. La critica per la sconfitta, quella, fa parte del gioco, ci mancherebbe: dipingere tutto di nero, reputando fallimentari i tanti sforzi compiuti, sarebbe tuttavia un peccato. Non posso promettere che batteremo l’YB, ma è giusto alimentare la voglia di successo. Nessun dettaglio sarà tralasciato. Faremo di tutto per mettere in difficoltà i gialloneri. E non vediamo l’ora di giocare la finale».
«Ritengo che si potesse fare meglio». Da quando Martin Blaser ha pronunciato queste parole, la tua squadra non si è più fermata. Le parole del CEO bianconero ti hanno infastidito o hanno costituito il miglior pungolo al momento giusto?
«Sono abituato a tirare le somme alla fine della stagione e non durante la pausa di una partita. E a dirla tutta, in quell’intervista lo affermava lo stesso Blaser. Le sue esternazioni sono state sicuramente forti. Un segnale. Che abbiamo accettato serenamente, consci della fiducia che la società non ha mai fatto mancare alla squadra. Anche negli scorsi giorni. E non solo a parole».
Dopo la Coppa vinta nel 2022, il Lugano è stato per certi
versi smantellato. Temi che possa accadere di nuovo considerato l’andamento
della stagione e il rendimento di alcuni elementi, Valenzuela, Celar, Aliseda,
Amoura, per fare qualche nome?
«Se i nostri migliori elementi riuscissero veramente a
fare “il salto”, ciò potrebbe fungere da stimolo e calamita per altri giocatori
finiti nei radar della dirigenza. Ultimamente ho discusso con tre potenziali
acquisti per il futuro e tutti hanno menzionato l’esempio di Sandi Lovric. Il
suo passaggio e soprattutto le sue prestazioni all’Udinese, un club storico,
non di secondo piano, hanno cambiato in un colpo solo la dimensione del Lugano.
Avere più Lovric, dunque, renderebbe ancor più attrattivo il nostro club per
chi nel recente passato ha preferito accasarsi altrove. La percezione ora è
cambiata. Naturalmente tutto dipenderà dai traguardi che riusciremo a raggiungere».