«La Serbia battuta nel 2018? Più bello solo il giorno dell'indipendenza»
Comprendere il Kosovo in sette ore non è possibile. Anzi, sarebbe presuntuoso. Perché bisogna fare i conti con un’anima tormentata dalla storia. E perché non è chiaro se i brandelli continuino a prevalere sulle ferite rimarginate dal tempo e da tante mani amiche. Scavare alla ricerca delle radici di Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka, muovendosi in punta di piedi fra la gente e i luoghi a loro cari, è però un inizio. Un modo, anche, attraverso il quale cogliere alcuni frammenti di un popolo e un territorio legati intimamente alla Svizzera. E, certo, alla sua nazionale di calcio.
Diretti a Zheger
L’appuntamento con Bekim Xhemili è fissato alle 7, a ridosso della Mother Teresa Boulevard. Siamo nel cuore di Pristina, dove di lì a poche ore tifosi locali e rossocrociati si mischieranno tra cori e corde di çiftelia pizzicate. Quello tra Kosovo e Svizzera è il match dell’anno. «E sapere che Shaqiri abbia riservato cinquanta biglietti per i suoi famigliari un po’ mi fa arrabbiare» ci confida la nostra guida, rimasta a bocca asciutta come tanti concittadini. La giornata è splendida, e quando imbocchiamo l’autostrada verso Skopje le auto in circolazione sono ancora pochissime. No, non siamo diretti in Macedonia del Nord, ma a sud, al distretto di Gjilan. Lì, nel piccolo villaggio di Zheger, il 10 ottobre del 1991 nacque proprio Shaqiri.
Per arrivarci serve un’ora di viaggio. «Ecco una vettura con le vostre targhe» indica Bekim. «Durante l’estate – aggiunge – sono più di quelle kosovare. Di fatto la popolazione raddoppia e circola una quantità enorme di soldi, complici le visite ai parenti e le vacanze dei figli della diaspora». Già, negli anni Sessanta furono i lavoratori stagionali, poi a innescare miseria e fughe di massa ci pensarono la guerra e le forze jugoslave di Slobodan Milosevic. «Non è vero però che se ne sono andati tutti» tiene comunque a precisare il nostro compagno. «Io non ho mai sentito il bisogno di partire». La famiglia di Bekim, oltretutto, è di Mitrovica, città simbolo – al confine nord del Paese – delle tensioni con la Serbia. Nel 2022, la cosiddetta guerra delle targhe e i problemi di reciprocità hanno riacceso gli animi. «Ora la situazione è migliorata, anche se a Mitrovica è tutto un compromesso fra la parte albanese e quella serba. In ogni caso è un passo avanti, considerato che per 20 anni chi abitava su un fronte e chi sull’altro - in un fazzoletto di terra - nemmeno si è conosciuto».
Trattori e Porsche Macan
A Zheger, invece, tutti conoscono Shaqiri. Più che un villaggio si tratta di una lunga via, intitolata ad Agim Ramadani, comandante dell’Esercito di liberazione del Kosovo - l’Uçk - morto nel 1999 e in seguito elevato a eroe nazionale. Alla nostra destra e alla nostra sinistra si alternano abitazioni fatiscenti, villette nuove di zecca e case costruite a metà. «E se vedete quattro costruzioni identiche significa che a realizzarle sono stati quattro fratelli o quattro cugini». Anche la casa di Shaqiri fa parte di un nucleo in cui oggi è rimasto stabilmente solo uno degli zii. A fornirci le ultime indicazioni è Ymer Ramadani, cugino del citato Agim. Sì, qui in pochi metri convivono paladini e persone comuni. «Non sono sorpreso del talento di Xherdan» ci dice. «Suo papà Hysni Shaqiri aveva lo stesso stile. La stessa classe. Ha fatto le fortune dell’FC Zheger e dell’FC Drita prima di rifugiarsi in Svizzera quando il figlio aveva 2 anni». Mentre parla dei Shaqiri, gli occhi di Ymer si illuminano. E, come faranno molti altri dopo di lui, esita quando gli si chiede di schierarsi in vista del match del Fadil Vokrri. Rubiamo un paio di scatti della residenza famigliare, davanti alla quale svettano la bandiera albanese, quella svizzera e quella del Basilea. Alle nostre spalle transitano trattori e Porsche Macan. Paghiamo 1 euro 20 centesimi un espresso e un tè. E, prima di fare rientro su Pristina, abbiamo pure il tempo di scambiare due parole in schwitzerdütsch con un locale che ha trascorso 40 anni a Soletta.
Dua Lipa e Adem Jashari
Risaliti in auto, incrociamo di nuovo il Camp Bondsteel, quartier generale delle forze militari americane, e percorriamo la strada dedicata a Beau Biden, figlio del presidente statunitense deceduto nel 2015. A Pristina, Bill Clinton e Georg W. Bush hanno rispettivamente statua, gigantografia e una boulevard a loro destinate. Il primo, nel 1999, coordinò il provvidenziale intervento della NATO. Il secondo era in carica nel 2008, quando il Kosovo si dichiarò indipendente. «Dalle nostre parti, non a caso, si dice che i kosovari amano gli americani più di quanto gli americani amino loro stessi» afferma sorridendo Bekim. E a proposito di icone occidentali. Lungo la direttrice R6, la radio propone un brano di Dua Lipa. «Anche lei è originaria del Kosovo. Lo sapevi?» ci interroga. Onestamente: no. «È nata nel Regno Unito e però qui è famosa quanto Shaqiri e Xhaka».
Noi, per l’appunto, siamo sulle tracce di Granit. O meglio, della «sua» Pristina. Non troviamo subito ciò che cerchiamo. Siamo alle porte della capitale, non in città. «Il quartiere, per semplicità, è associato alla vicina «Kazerma Adem Jashari», sede delle forze armate kosovare» spiega Bekim. Curioso. Proprio il fondatore dell’Uçk - altra leggenda nazionale - è stato al centro delle polemiche. Ricordate? Xhaka vi aveva fatto allusione al termine della vittoria contro la Serbia, ai Mondiali in Qatar, vestendo la maglia del compagno di nazionale e omonimo Ardon Jashari. «In effetti Granit è stato molto creativo» ammette la guida, una laurea in antropologia. «Se devo dirla tutta, quel gesto - per quanto fine - è stato molto più provocatorio rispetto all’esultanza con l’aquila bicefala del 2018». Un episodio e una partita, quelli ai Mondiali russi, che qui non ha scordato nessuno. «È stata la notte più bella dopo la dichiarazione d’indipendenza del 2008. Nemmeno lo sceneggiatore più ardito avrebbe potuto immaginare un copione del genere». Menzioniamo i mal di pancia provocati in Svizzera da quell’incontro. E le ragioni che hanno spinto parte dell’opinione pubblica a criticare anche ferocemente Xhaka e Shaqiri. «Ma dovete capire, o provare a capire, che il dolore per i kosovari è qualcosa di ancora fresco» replica Bekim. Ne avremo la prova più tardi, attraversando il villaggio di Gračanica. «Siamo a meno di 10 chilometri da Pristina e qui solo il 10-15% dei residenti è di etnia albanese» ci viene detto. Ovunque, in effetti, scorgiamo le bandiere serbe. «Ma rispetto a Mitrovica, la convivenza è pacifica. L’esempio, se vogliamo, è virtuoso». Parlare d’integrazione compiuta, tuttavia, non ha senso. «Chi frequenta le elementari a Gračanica non impara l’albanese» rileva per esempio Bekim. Gli autocollanti che coprono i simboli serbi sulle targhe delle vetture locali confermano la fragilità dei rapporti. «Un altro compromesso» evidenzia da parte sua Bekim.
«Occhio Sami: se Granit segna non mi vedi più»
Manca poco a mezzogiorno. Il traffico è molto più intenso. Ci avviciniamo all’obiettivo. Bekim si ferma e si reca in un bar. Nell’attesa, il nostro sguardo volge a destra e viene attirato da un annuncio funebre appeso a un palo della luce. «Ali(smajl) Xhaka (01.02.1938-17.08.2023)». È accompagnato da una scritta in albanese e in calce spicca «Familja Xhaka». Forse ci siamo. «Sì, è il papà di Ragip, il nonno di Granit» ci confermano qualche minuto dopo e una decina di metri più in là. Una piccola e umile officina funge da sentinella per una stretta via che porta alle numerose abitazioni degli Xhaka. Vi scoviamo Sami, intento a lavare una Polo bianca. Alle sue spalle, appese al muro, spiccano più foto di un giovane Granit. I tempi sono quelli del Mondiale vinto con la Svizzera U17 e del Basilea. Alla sua destra, con l’aquila bicefala sullo sfondo, ecco l’immagine del fratello Taulant.
Sami è loro cugino. Parla solo albanese, lingua con cui infierisce su Bekim: «Granit ci ha procurato 40 biglietti, lo vedrò giocare dal vivo per la prima volta. Nelle scorse settimane è venuto a trovarci, a maggior ragione dopo la morte del nonno». Il padrone di casa non esita a mostrarci immagini e video dei figli apprendisti calciatori. Solo uno di essi è presente sullo sfondo del suo telefonino. E al suo fianco, va da sé, c’è l’idolo Granit. «Occhio Sami: se Xhaka segna non vengo più da te a comprare gli pneumatici!» urlano dall’esterno. Sami ride. «Ah, per caso hai qualche biglietto?» rilancia il passante. La sfida valida per le qualificazioni a Euro 2024 assomiglia a una pietra preziosa. Domani, a un ricordo indelebile. Mentor Latifi potrà conservarlo. È l’ultimo incontro del nostro breve viaggio fra le pieghe del Kosovo. «Io ho deciso di fare ritorno a Pristina» ci racconta in un bar del centro, all’ombra della statua eretta in memoria di Ibrahim Rugova, primo presidente della riconosciuta Repubblica albanese in Kosovo e soprannominato il «Gandhi dei Balcani». «Per motivi di natura politica, con i miei genitori abbiamo lasciato la patria nel 1991. Dai 17 ai 31 anni - prosegue Mentor - la Svizzera mi ha garantito una formazione e mi ha dato l’opportunità di affermarmi a livello professionale. Partire non è stato né piacevole, né semplice. Ma sono solo grato alla nazione in cui ho trovato rifugio. Sarò allo stadio, con il resto della mia famiglia e due bandiere». Lo comprendiamo. Senza la presunzione di aver compreso il Kosovo.