L'intervista esclusiva

Parla Georg Heitz: il Lugano, Shaqiri in Serbia e la visione di Joe Mansueto

Il direttore sportivo dei Chicago Fire e membro del CdA bianconero si confida al Corriere del Ticino: «La squadra di Croci-Torti? La vorrei con più passione»
Georg Heitz, 53 anni, è il direttore sportivo dei Chicago Fire dal 2019. ©CdT/Gabriele Putzu
Massimo Solari
25.02.2023 06:00

È il braccio destro di Joe Mansueto. La mente delle strategie sportive di Chicago Fire e FC Lugano. Georg Heitz si espone raramente. Ma in questa intervista esclusiva al Corriere del Ticino affronta a ruota libera numerosi dossier, anche delicati, legati al suo lavoro sull’asse USA-Ticino.

Domani è in programma la sfida contro il Basilea. Il cuore di Georg Heitz ha oramai imparato a battere per il Lugano e non più per i renani?
«Assolutamente. Bisogna essere professionali. Ho sempre amato e continuerò ad amare il Basilea, ha giocato un ruolo davvero importante per la mia carriera. Per la mia vita, anche. Ma domani, non ho dubbi, l’obiettivo è battere i renani. Dobbiamo batterli».

Le enormi difficoltà in campionato del suo ex club la sorprendono? Quanto sono figlie della gestione acerba di David Degen e quanto si trascinano dalla precedente proprietà?
«Non tocca a me giudicare e commentare l’attuale situazione del Basilea. Naturalmente, parliamo di una squadra forte e ambiziosa. E non da ieri. Un grande club, però, non è mai facile da gestire. Pressione e brusio esterno sono sempre presenti. L’attenzione di media e tifosi è enorme. Insomma, si tratta di una realtà molto differente da quella del Lugano. Nella quale bilanciare tutti gli aspetti in gioco è tutto fuorché semplice. Lo dico per esperienza e con marcata stima per coloro che - per l’appunto - hanno a che fare con questo genere di società in Svizzera. E poi attenzione: dare per perdenti i renani già ora sarebbe un errore. Mancano ancora troppi incontri».

Il Lugano, intanto, ha iniziato balbettando il 2023. Così l’obiettivo Europa rischia di naufragare. Non crede?
«Non sono d’accordo. La settimana scorsa, a Berna, abbiamo dimostrato l’esatto opposto. E cioè che possiamo batterci per un piazzamento europeo. A mio avviso, il Lugano ha un grande potenziale. Talvolta, vorrei solo osservare un po’ più di passione. In alcune circostanze, in effetti, i giocatori mi sembrano avere troppa fiducia nel proprio talento. Il campionato svizzero, se vuoi avere successo, richiede invece la ricerca costante del limite.Detto ciò, rimango molto ottimista e non dimentico che il gruppo è cambiato parecchio la scorsa estate. Tradotto: per diventare una realtà dalla mentalità vincente serve un po’ di tempo. In questo senso vi sono senz’altro margini di crescita. Lo sviluppo generale della squadra, ad ogni modo, ci soddisfa ampiamente».

Lo scorso mese è stato annunciato il rinnovo del contratto di Mattia Croci-Torti. Quale analisi è stata fatta a Chicago – in particolare da lei – circa l’operato del tecnico ticinese?
«Il lavoro di Mattia ci è piaciuto dagli albori. Il modo in cui gestisce la squadra è coinvolgente. Ecco, quando parlo di passione - riferendomi ai giocatori - penso all’atteggiamento del tecnico. Il suo know-how tattico, la flessibilità e il rapporto costruito con lo spogliatoio sono straordinari. In tedesco parliamo di “figuren”, di personaggi carismatici: il Crus è una rarità da questo punto di vista per il calcio elvetico. È anche una sorta di monumento a Lugano, abile a livello comunicativo e - di riflesso - attrattivo in termini di entertainment. Una caratteristica, quest’ultima, sempre più importante per il mondo del calcio. Abbiamo bisogno di tutto questo. Perciò il suo rinnovo occupava i nostri pensieri da parecchio tempo. Semplicemente, abbiamo preferito agire con calma».

E Georg Heitz non teme che il profilo di Croci-Torti possa fare gola a una big della Super League?
«Beh, se si osserva il mercato degli allenatori in Svizzera, Croci-Torti deve essere un profilo interessante per altri club. Allo stesso tempo, però, credo che Mattia sia pienamente convinto del nostro progetto a Cornaredo. E concentrato sugli obiettivi da raggiungere. Non temo quindi una sua partenza anticipata. Ama il lavoro che sta portando avanti a Lugano».

In alcune circostanze, i giocatori bianconeri mi sembrano avere troppa fiducia nel proprio talento

Negli ultimi giorni, l’eco sarà arrivata pure negli States, ha fatto discutere un’intervista di Renato Steffen al CdT. Lei portò il giocatore a Basilea, nel 2016. Che idea si è fatto di questo sfogo che in molti hanno interpretato anche come una richiesta d’aiuto?
«Non lo ritengo uno sfogo. E in ogni caso, reputo abbia il diritto di dire quello che pensa. Di più: pungolare e risvegliare questo gruppo, di tanto in tanto, può essere un bene. Steffen ha lo spessore sportivo per farlo. Ritorno sul quel 10% che andrebbe aggiunto al talento presente in rosa. Mi sembra che Renato reclami questo, ben cosciente che con una simile intervista avrebbe messo pressione pure su sé stesso. A fronte di simili dichiarazioni - e Renato lo sa bene - sarà necessario offrire delle prestazioni di un determinato livello e con una certa continuità. Non solo una volta ogni tanto».

Per assicurarsi il nazionale rossocrociato, la proprietà ha sicuramente acconsentito a uno sforzo finanziario notevole. Un’eccezione o, in caso di altre opportunità simili, una spesa ripetibile quest’estate?
«Si è trattato di un’opportunità da cogliere. Un elemento vivo che avrebbe potuto far progredire lo spogliatoio sul piano della mentalità. Sì, lo definirei un investimento extra-budget. Non voglio escludere altre operazioni di questo tenore in futuro. Ma, a oggi, non sono pianificate altre eccezioni».

Poco oltre la sua metà, il campionato svizzero è praticamente ipotecato dallo Young Boys. E, avere un campione svizzero prima di Pasqua, è oramai la regola. Come giudica la riforma zoppa che sarà introdotta dalla prossima stagione? E i playoff, che conosce anche se sotto altra forma in MLS, erano davvero così pericolosi?
«Innanzitutto, non ho apprezzato questo cambio di rotta a posteriori. La maniera con la quale la maggioranza dei club ha fatto retromarcia mi è sembrata un po’ ridicola. Di certo, poco credibile per il calcio elvetico. Dopodiché, posso comprendere le diverse sensibilità sul tema. È logico, per intenderci, che un piccolo club come Lugano potesse vedere di buon occhio la formula dei playoff. Così come posso capire, al 100%, l’opposizione di Young Boys o Zurigo. Per queste realtà le sorprese sportive non sono esattamente le benvenute. Sicurezza e stabilità sono ritenute fondamentali. Senza dimenticare che l’YB, per esempio, ha lavorato in profondità per riuscire a mantenere nel tempo un simile livello. Non è scontato, al contrario va rispettato e persino applaudito».

Christian Constantin potrebbe lasciare nel 2024. E, con lui, sparire il Sion dalla cartina del calcio svizzero di punta. Senza l’intervento di una proprietà straniera, come ad esempio avvenuto a Lugano, un club come quello vallesano sarebbe davvero destinato all’oblio?
«Non conosco nel dettaglio il quadro finanziario del club. Ma una cosa la posso affermare senza problemi: il calcio svizzero è difficile perché - salvo un paio di casi, YB e ora San Gallo - è deficitario. Si perdono molti soldi e, in talune circostanze, servono dunque nuove soluzioni. Sorrido sempre quando mi si parla di “investitori”. Non è così: il ritorno economico è rarissimo. È una questione strutturale, che non può essere modificata dall’oggi al domani. Soffrono in molti e il discorso vale pure per il Lugano e la proprietà Mansueto. Né in questa prima fase, né a medio termine, sarà possibile registrare utili».

A proposito di Joe Mansueto e della sua visione per il FC Lugano. Qual è il grado di soddisfazione? E a che punto si trova la sinergia sull’asse Chicago-Ticino?
«Joe ama il progetto bianconero. Non si perde un match, poco importa dove si trovi nel mondo; conosce ogni giocatore; apprezza ancor più il Ticino, dopo averlo visitato lo scorso anno. Per quanto concerne la collaborazione fra Chicago e Lugano, abbiamo allineato diversi settori: quello della performance, sotto la direzione dell’ex Basilea Nacho Torreño, quello dello scouting e infine quello dell’analisi dati. Vi sono poi alcune cooperazioni nel ramo business, con Martin Blaser ovviamente in prima linea. Mentre a livello sportivo lo scambio con Carlos Da Silva e Mattia Croci-Torti è continuo. Senza dimenticare Roman Hangarter, in contatto regolare con il direttore dell’Academy dei Fire. Il nostro direttore tecnico Sebastian Pelzer, poi, sarà in Ticino a breve per pianificare la prossima stagione».

Le parole di Steffen? Pungolare e risvegliare questo gruppo, di tanto in tanto, può essere un bene

Vi sono progressi in merito al progetto di acquisire un altro club in Europa?
«È un elemento della visione di Mansueto, sì. Sempre presente. Ma non bisogna nemmeno accelerare eccessivamente. Prima serve stabilizzare quanto già si trova sotto il controllo dell’attuale proprietà. E poi vedremo se l’obiettivo del terzo club - dichiarato da Joe - potrà essere concretizzato».

A proposito di multiproprietà e ad esempio del caso Manchester United: l’UEFA è preoccupata, considerato il fenomeno in perenne espansione. Crede che il potenziale conflitto d’interessi fra queste realtà ibride possa essere gestito e controllato diversamente?
«La premessa è scontata, ma doverosa: in tutte le realtà c’è bisogno di persone o gruppi disposti a versare importanti somme di denaro. Inghilterra compresa. L’UEFA, al momento, vieta la co-esistenza di due squadre gestite dalla stessa proprietà nelle proprie competizioni. Ma, ammettiamolo, non è mai così chiaro chi realmente si cela dietro determinati management. Un grande sponsor, per esempio. Di conseguenza anche per Nyon non è semplice scongiurare totalmente i possibili conflitti d’interesse. Il calcio, oramai, è una multinazionale dello spettacolo e risponde a un numero enorme di tifosi. E, mi ripeto, per accontentare e pagare tutti gli attori in gioco servono parecchi soldi».

Fra due settimane scatta la nuova stagione di MLS. Con quali sentimenti la affronta?
«Sono ottimista. Credo che i Chicago Fire siano sufficientemente attrezzati per fare i playoff. Forse mancano due o tre innesti; la finestra per i trasferimenti chiude a fine aprile. Idealmente, però, vorremmo abbracciare il campionato con il 95% della rosa già definito. Maren Haile-Selassie? Si è integrato molto bene e sono certo che potrà darci una mano».

Sarà il suo ultimo campionato da direttore sportivo dei Chicago Fire?
«Bisogna domandare a Joe Mansueto (ride, ndr). No, battute a parte, si tratta di questioni interne. La nostra relazione è molto stretta e al contempo aperta. Dopo tutto siamo solo in febbraio. È un po’ presto per questo genere di discorsi».

Davvero lo scenario di Georg Heitz nella veste di dirigente del Lugano è inimmaginabile?
«Lo è. No, non accadrà sicuramente. Il Lugano dispone già di un direttore sportivo molto preparato - Carlos Da Silva - che per altro parla bene l’italiano a differenza del sottoscritto. Bisogna rispettare la cultura nella quale si opera e, non a caso, per il club bianconero abbiamo scelto appositamente figure in grado di muoversi nell’ambiente, d’inserirsi al meglio nel contesto luganese».

Georg Heitz e Xherdan Shaqiri, il giorno della presentazione a Chicago. ©AP/Brian Cassella
Georg Heitz e Xherdan Shaqiri, il giorno della presentazione a Chicago. ©AP/Brian Cassella
Shaqiri a Novi Sad? Non dipende da noi, ma non siamo felici. Giocare in Serbia è incomprensibile

Un giocatore sbarcato a Cornaredo di recente è Xherdan Shaqiri. Come lo ha visto dopo la brutta eliminazione agli ottavi di finale dei Mondiali in Qatar? «XS» rimane il vostro giocatore simbolo, sportivamente e commercialmente?
«Xherdan è molto contento qui, a Chicago. Lo accennavo in precedenza: il calcio è spettacolo e in questo senso Shaqiri è un giocatore cruciale per noi. Nella sua carriera ha vinto tanto e, dunque, il match storto contro il Portogallo - per quanto spiacevole - non lo ha abbattuto oltremodo. Anche perché la sua Coppa del Mondo, nel complesso, è stata positiva. Durante la preparazione si è allenato bene, senza subire infortuni. E quindi confidiamo che possa trascinarci verso l’obiettivo playoff».

Per caso avete già discusso con il giocatore e con l’ASF in vista della delicata trasferta della Svizzera a Novi Sad, il prossimo 25 marzo? I Fire giocheranno in quei giorni e forse preferireste non prendervi rischi…
«Non spetta alla direzione dei Chicago Fire decidere per Shaqiri. Di sicuro non siamo entusiasti, anzi, di questa situazione. Giocare il match in Serbia, onestamente, è qualcosa di incomprensibile. Abbiamo già affrontato il tema con Xherdan e lo faremo anche con il ct rossocrociato Murat Yakin, con il direttore delle nazionali Pierluigi Tami e l’agente del calciatore. Ma ribadisco: la scelta finale non dipenderà da noi».

Nonostante l’arrivo di Shaqiri, i Fire hanno mancato i playoff anche la scorsa stagione. La sua posizione è stata messa in dubbio, soprattutto all’esterno del club. All’interno è mai stata in pericolo?
«No, non lo è stata. Anzi, Joe Mansueto è stato molto chiaro al proposito. Per altro, già dall’estate. Se poi alcuni giornalisti hanno cercato di creare un’incertezza che di fatto non sussisteva, beh, non posso farci nulla. Ciò non significa non accettare le critiche. Fanno parte del nostro lavoro e sono legittime. A mia volta ero deluso per aver mancato di nuovo l’accesso ai playoff. Credo però che sotto la mia direzione sportiva i Chicago Fire abbiano conosciuto anche dei successi, per esempio sul piano del mercato dei giocatori».

Meno su quello degli allenatori. Perché Raphaël Wicky, promesso allenatore campione svizzero, non ha funzionato in MLS?
«La MLS è una lega molto complicata. Per qualsiasi allenatore. Basti pensare al fattore salary cap, che rende poco flessibile la composizione della squadra. Raphaël, a mio avviso, ha fatto un buon lavoro, sia tattico, sia tecnico. Nella parte finale della sua avventura a Chicago ha inoltre dovuto affrontare un momento delicato sul piano famigliare ed è in questa fase che entrambe le parti hanno compreso come forse fosse il momento di separarsi. Ad ogni modo, non mi pento di averlo scelto. Sta dimostrando di essere un ottimo allenatore».

Forse non i risultati, ma per la sua direzione sportiva parlano alcune notevoli operazioni di mercato. Ci riferiamo alle cessioni di Slonina al Chelsea e Durán all’Aston Villa, per le quali i Chicago Fire hanno contabilizzato plusvalenze plurimilionarie. Ritiene che l’opzione per allungare di un anno il suo contratto sia stata attivata grazie a queste scelte?
«Due cose. Innanzitutto, a Chicago l’obiettivo non è quello di rivendere giocatori. No, la priorità è avere successo. Fare i playoff. Secondariamente, Joe Mansueto ha fatto valere questa opzione prima che, per esempio, concretizzassimo l’affare Durán con l’Aston Villa. Questo per dire che la fiducia è reciproca. E non riguarda solo me, ma l’intera squadra che mi accompagna».

La mia situazione ai Fire non è mai stata in pericolo: con Joe Mansueto la fiducia è reciproca

Nei vostri piani a medio-termine a Cornaredo, avete fissato una scadenza ideale per riuscire a replicare dei casi virtuosi come quelli di Slonina e Durán? Esempio: «Entro 3 anni dal suo acquisto, Zan Celar dovrebbe garantire una plusvalenza del 400%».
«Non esiste un business plan di questo tipo, per quanto possa sembrare anche ideale. Una cosa è chiara: quando mettiamo sotto contratto un giocatore, vogliamo che le sue ambizioni vadano oltre Lugano. A un grande campionato. L’ho sempre affermato, anche da ds del Basilea. È una questione di mentalità. Tornando a Celar, non l’abbiamo però fatto firmare a Cornaredo calcolando già nelle nostre teste quale potesse essere il suo valore alla cessione. No, come a Chicago, un acquisto è finalizzato al bene del club. Abbiamo bisogno di Zan per la seconda parte della stagione. Perché puntiamo in alto sia in Coppa Svizzera, sia in campionato. Per questo motivo non abbiamo voluto perdere alcune pedine durante la pausa invernale».

A proposito di colpi di mercato clamorosi. Dieci anni fa Salah esplodeva a Basilea. Rimane il suo capolavoro da ds?
«Senz’altro Momo ha conosciuto una carriera straordinaria. Ma non voglio prendermi i meriti per un giocatore al cui sviluppo hanno contribuito in diversi e che è rimasto al St. Jakob appena 18 mesi. A fare la differenza, inoltre, è stata la sua forza di volontà, la cultura del lavoro e la ricerca costante del livello più alto. Sì, un esempio totale per i giovani».

Da grande conoscitore di calcio cosa pensa della Superlega?
«Le differenze fra grandi e piccoli club, in Europa, aumentano di anno in anno. E comparare fra loro queste realtà - e i rispettivi numeri - ha sempre meno senso. Sono quindi convinto che, presto o tardi, un torneo del genere vedrà la luce. È indifferente sotto quale nome e con che formato».

Archiviato Qatar 2022, lo sguardo è già ai Mondiali del 2026 capitanati dagli Stati Uniti. Quale ulteriore sviluppo si attende per la MLS?
«In generale, la MLS è una lega che evolve molto rapidamente. Per dire: quando sono sbarcato a Chicago, nel 2019, era un’altra cosa. La sua competitività è in perenne aumento, così come crescono gli investimenti delle differenti proprietà. Con l’avvento dei Mondiali, mi aspetto quindi un ulteriore salto di qualità in termini di spettacolarizzazione dell’evento calcistico. Il che farà del bene al nostro mondo, alle prese con l’agguerrita concorrenza dei tradizionali sport americani. Non solo: per certi versi spero che anche il mio lavoro di direttore sportivo possa venire favorito dall’attrattività viepiù importante della Major League Soccer».

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