Crisi della diocesi di Lugano

La scelta di papa Francesco nel segno dell’imprevedibilità

Il pontefice ha più volte tracciato il profilo del vescovo «ideale» ma le sue decisioni sono quasi sempre state sorprendenti - «Alle diocesi non servono manager ma chi sa alzarsi all’altezza dello sguardo di Dio» - Il ruolo del nuovo Dicastero creato lo scorso mese di marzo
Dario Campione
12.10.2022 06:00

Nulla c’è, di scontato, nella nomina del futuro vescovo di Lugano. Inutili sono anche le previsioni. E azzardate. Sui tempi e sui nomi. Il processo potrebbe durare pochi mesi oppure un anno. E più ancora. Se i nomi che saranno sottoposti a Francesco non fossero del tutto convincenti.

L’imprevedibilità è il segno che ha caratterizzato i 9 anni del pontificato del papa argentino quando si è trattato di scegliere le guide delle varie diocesi. Spesso Francesco, con decisioni inattese quando non spiazzanti, ha elevato alla dignità episcopale semplici preti di periferia: clamoroso, in questo senso, è stato il caso di Corrado Lorefice, il parroco di Modica diventato, tra l’incredulità generale, arcivescovo di Palermo.

In generale, spiega al Corriere del Ticino una fonte diretta del mondo ecclesiale, «il Papa attende che le conferenze episcopali presentino i nomi e non di rado, quando non è soddisfatto o è incuriosito, chiede: “ma non ce n’è un altro?”. Può allora succedere che, di nomi, se ne facciano molti. Finché non c’è quello che, per qualche ragione, lo convince».

Certamente, «conterà molto il parere della conferenza episcopale svizzera. Così come conterà il parere, anche dal punto di vista formale, del nunzio apostolico», il primo consultore, colui il quale raccoglie e trasmette le varie indicazioni provenienti dal territorio. «Ma Bergoglio si muove anche in autonomia, va per conoscenze dirette, magari chiede a qualche cardinale o vescovo o a qualche amico. E non è da escludere che si rivolga ai confratelli gesuiti, i quali hanno in Svizzera una piccola comunità e molta tradizione. Il Papa chiede che gli sia segnalato non chi ha un curriculum speciale, ma chi è stato protagonista di fatti particolari, di episodi che colpiscono. Com’è successo, ad esempio, con monsignor Oscar Cantoni, il vescovo di Como creato cardinale nell’ultimo concistoro, ad agosto, per il modo con cui ha gestito la tragica e dolorosa vicenda di don Roberto Malgesini, il prete degli ultimi ucciso da un immigrato al quale aveva dato aiuto».

Sono valutazioni «che non rispondono a uno schema predefinito: Bergoglio ha, in questo, il culto del carisma del discernimento, aspetto che va sottolineato in quanto gli deriva dall’appartenenza alla Compagnia di Gesù. C’è tutto un percorso indicato da Sant’Ignazio a tale proposito, e il discernimento può essere a volte molto sorprendente».

La riforma della curia romana

Ma c’è poi un altro elemento di novità, che non può essere sottovalutato. Il 19 marzo scorso, Francesco ha promulgato la Costituzione apostolica “Praedicate Evangelium” con cui è stata riformata in modo radicale l’organizzazione della Curia romana. Tra le innovazioni introdotte dal Papa c’è stata la trasformazione della vecchia Congregazione dei vescovi in Dicastero, chiamato a provvedere «a tutto ciò che attiene alla nomina dei vescovi, diocesani e titolari».

Chi pensa che tutto questo sia stato soltanto un passaggio formale, rischia di commettere un grosso errore. Perché il primo atto del Papa, dopo la nascita del Dicastero, è stata la nomina dei nuovi componenti, tra i quali spiccano tre donne (due suore e una laica). Il senso è chiaro: massima apertura della Chiesa al mondo esterno. Anche nella scelta dei vescovi. Per indicare i quali si dovranno coinvolgere «in forme appropriate anche membri del popolo di Dio delle diocesi interessate».

Curiosamente, è entrato a far parte del Dicastero dei vescovi lo stesso cardinale Cantoni. E non quindi del tutto azzardato immaginare che proprio il cardinale comasco possa suggerire un nome al Papa, vista anche la vicinanza e la contiguità delle diocesi lariana e luganese.

Riflessioni informali

In ogni caso, il profilo ideale del vescovo è stato più volte tracciato da Francesco, in occasioni ufficiali così come in situazioni più informali. Nel febbraio del 2014, intervenendo alla Congregazione per i vescovi, il Papa disse che alle diocesi «non servono manager; i vescovi non sono amministratori delegati di un’azienda. Serve piuttosto uno che sappia alzarsi all’altezza dello sguardo di Dio su di noi». E, ancora: «L’episcopato non è per sé ma per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare». Nel novembre del 2018, in una delle meditazioni pronunciate a braccio nella cappella di Santa Marta (e riassunte dall’Osservatore Romano), il pontefice si chiese in modo esplicito «Come dev'essere un vescovo», sottolineando nuovamente la prevalenza della dimensione pastorale su quella gestionale: «Parliamo del vescovo come amministratore di Dio, non dei beni, del potere, delle cordate, no: di Dio. Il vescovo sempre deve correggere sé stesso e domandarsi: “Io sono amministratore di Dio o sono un affarista?”. Perché il vescovo è amministratore di Dio». Considerazioni che, in qualche modo, possono anche far comprendere lo «smarrimento e il subbuglio» in cui, per sua stessa ammissione, è caduto monsignor Valerio Lazzeri.

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