«Sarò sempre un pilota, anche se ero troppo alto per la Formula Uno»
«Sarò per sempre un pilota. Anche quando dormo. Sì, sarò un pilota che dorme». Joël Camathias ha detto basta. A 41 anni suonati, nonostante un fisico e una verve invidiabili, il ticinese ha – sue parole – messo un punto su una carriera lunga, lunghissima. E ricca di successi e soddisfazioni. Lo abbiamo intervistato.
Joël, perché calare il sipario proprio ora, dopo tanti anni di accelerate?
«Tanti anni, sì. Quasi trenta: nel 2024 sarebbero stati trenta esatti. Ho deciso di mettere un punto dopo un anno
sabbatico non voluto, nel senso che avevo tentato di trovare un ingaggio per la
stagione 2022. Però, ecco, per tutto questo tempo sono rimasto sereno. Pensavo
che l’astinenza dalle corse sarebbe stata diversa, invece l’ho avvertita in
maniera blanda. Le attività lavorative e la famiglia, d’altronde, piano piano
mi hanno portato via dal discorso racing. A me, in fondo, piace fare le
cose bene. E per fare le cose bene sarebbero serviti tempo e dedizione. Diciamo, allora,
che mi ero stufato di non poter correre come avrei voluto».
È un punto definitivo?
«Nella vita non escludo
nulla. In questo momento, come detto, voglio mettere un punto. Anche perché la
decisione è maturata spontaneamente. In questo periodo, negli anni precedenti,
mi arrabattavo per trovare un sedile per la stagione successiva. Un periodo
fatto di viaggi, incontri, chiamate, e-mail. Se, ora, non mi sono mosso, beh,
mi dico che allora è inutile portare avanti il discorso. La realtà è che non ho più
bisogno del motor sport, un’attività che mi ha dato tanto, ha richiesto tanti
sacrifici e che mi ha fatto crescere come persona e come uomo».
Che pilota è stato Joël Camathias?
«Mi sono sempre reputato
un pilota normale. Non il peggiore, non il migliore. Forse, mi sono un po’
sottovalutato in alcuni momenti. In generale, tendevo e tendo – nonostante il
mio ego, immenso – a essere modesto. E questo non mi ha sempre favorito. Sono
convinto che, nelle giuste condizioni, parlo di team, ambiente, mezzo, avrei
potuto dare tanto. È successo, in determinate circostanze. Quando, invece,
alcune cose non filavano come volevo, andavo in tilt. Ci sono piloti che riescono
sempre a tirar fuori la prestazione, martellando giro dopo giro. A me serviva la
perfezione. Tornando alla decisione, non andrei a correre per divertirmi ora
come ora. Voglio avere un obiettivo in tutte le cose che faccio. Anche a padel,
un hobby nato negli ultimi tempi, non avete idea della rabbia di fronte a una
sconfitta. Preferisco stare fermo: ho 41 anni e sono contento della mia
carriera».
Come può un (ex) pilota trovare la velocità e l'adrenalina nella vita di tutti i giorni?
«La velocità e l’adrenalina,
è vero, sono componenti che mancheranno. E sarà difficile ritrovare emozioni
simili. La gara, i duelli e via discorrendo. Sono e rimarrò ancora legato allo
sport, in particolare la corsa. Certo, parliamo di emozioni differenti rispetto
alle macchine. Rivenendo alle corse, nella mia mente è vivissima la memoria del
campionato International GT Open vinto nel 2009 assieme a Marcel Fässler, poi
diventato una star di Le Mans. Quando, sul finale di stagione, vincemmo una
gara, chiamai papà. Per non so quanti minuti, complice l’emozione, non
riuscimmo a parlarci. Piangevamo. Sono momenti appunto vivissimi, lucidi, assoluti. E
così tante altre volte. Ho vinto molto, ho finito vincendo. Sono, ripeto, orgoglioso
di quanto fatto. A spingermi, sempre, è stata questa voglia di ottenere
qualcosa. A volte sono sceso a compromessi, ma se mi guardo indietro posso dire
di essere sereno».
Trovare un sedile nelle ruote coperte, ultimamente, è diventato difficilissimo. Quanto ha inciso questo aspetto nella decisione?
«Ha inciso, è vero. Proprio perché è diventato sempre più
difficile trovare un posto. Noi, oggi, come piloti siamo divisi dalla
FIA, la Federazione dell’automobile, in quattro categorie: bronze, silver,
gold, platinum, a seconda del grado di professionismo e dell’appartenenza a una
casa automobilistica. C’è una miriade di piloti giovanissimi e fortissimi che
rientra nella categoria silver, la mia, quantomeno quella che mi appartiene.
Parliamo di ragazzi che, fino al giorno prima, sono seduti su un simulatore.
Poi salgono su una GT e vanno più forte di te. Puoi dire, allora, al team di
avere tutta l’esperienza di questo mondo, di aver corso due volte la 24Ore di
Le Mans. Ma la realtà è che non puoi competere davvero contro questi profili, anche perché
molti si presentano con una dote importante. D’altro canto, ultimamente quando salivo in
macchina non avevo nemmeno più la testa per concentrarmi al 100% su quello che
dovevo fare. Faccio un esempio. A Monza, nel 2021, nel mio ultimo anno di attività, durante le
prove libere poco prima di salire in macchina ho commesso l’errore di guardare
il telefono e leggere un’e-mail di lavoro. Questa piccola cosa, per quanto
banale, mi ha fatto guidare in maniera non lucida. Tant’è che ho finito per demolire
l’auto. A quei livelli, banalmente, la concentrazione dev’essere totale. Nel
calcio, nell’hockey, in altri sport di squadra, c’è un momento in cui puoi
rifiatare o estraniarti. E una discesa di sci, per quanto complicatissima, dura
qualche minuto. Nel mio caso, un evento come Le Mans fra tutto dura due
settimane. E tu, sempre, devi essere al 110%. Giro dopo giro, contro te stesso
e contro il tempo. È qualcosa di bellissimo, di appassionante. Sono sicuro, per dire, che nel mio sangue scorre benzina. Però è un impegno importante, non
puoi pensare di passeggiare».
Ripensando al Camathias ragazzo, nei primi anni Duemila, quanto è stato vicino il sogno di correre in Formula Uno?
«Ci sono andato vicino. Ma
un vicino con la borsa, nel senso che ero stato in Minardi, avevo un contratto
come test driver con la scuderia, ero stato anche in azienda a Faenza, dove
oggi c’è l’AlphaTauri e avevo parlato con Giancarlo Minardi, oggi ancora attivo
nella Federazione italiana. Mi disse: guarda Joël, tu sei di sicuro un buon
pilota, sei anche un bel ragazzo, ma la tua altezza (193 cm, ndr) non ti
permette di fare nulla in Formula Uno. Quelle parole, di fatto, mi fecero pensare. In parte capii che quel capitolo, per quanto
bello, prima o poi andava chiuso».
Perché, allora, insistere con le monoposto? Citiamo, tornando ai primi anni Duemila, esperienze in Formula 3000 e Champ Car.
«Il mio povero papà, con
cui c’è sempre un dialogo nonostante sia venuto a mancare anni fa, all’epoca mi
disse pure lui di lasciar perdere. Non è il tuo ambiente, passa alle ruote
coperte, mi ripeteva di continuo. Io però avevo la testa dura, puntai i piedi e
buttai via qualche anno nelle monoposto. Pur sapendo che non mi avrebbero portato
chissà dove. Avrei potuto iniziare prima con le ruote coperte, ottenendo magari
ingaggi diversi».
Ma Camathias ha imparato prima a guidare o a camminare?
«No, a camminare. Sono
arrivato tardi ai motori, era un’altra epoca. La stessa Formula Uno aveva
piloti più anziani rispetto a oggi. Cominciai a 13 anni, nel 1994, insistendo
con papà. Nonostante fosse stato pilota, devo dire che non mi ha mai indirizzato. Fu un
amico a spingermi, invitandomi un mercoledì pomeriggio ai go-kart a Magadino. Cito
un aneddoto: papà, per il mio primo go-kart, che ho ristrutturato e appenderò
presto su una parete di casa, ma non ditelo ancora alla mia compagna perché non
lo sa, prelevò i soldi dal mio conto risparmio per sensibilizzarmi. Disse: Joël
vuoi correre? Questo è quello che ti aspetta. Poi, per carità, mio padre è
sempre stato presente e mi ha aiutato lungo tutta la mia carriera.
Sostenendomi. Sempre».
Qualche rivale famoso incontrato lungo il percorso?
«Mi sono confrontato, in
carriera, a tutti i livelli, con grandi piloti e in contesti estremamente
competitivi. Faccio un nome su tutti: Fernando Alonso, con cui ho corso nei
kart e nelle formule minori. Era più basso di me, ma era anche estremamente
veloce e talentuoso. Sapevamo tutti che la strada, per lui, era spianata. Sono
sicuro che, nel giusto contesto, potrei ancora dare qualcosa. Un po’ come lui.
Ma devono collimare tanti, troppi fattori oggi come oggi. Una volta ancora: meglio
farmi da parte».
Fare il pilota non è un mestiere per tutti: bisogna gestire anche la paura di morire, giusto?
«Non ci ho mai pensato, se
non ultimamente. Quando sono diventato papà. Penso sia la natura umana. In età
adulta, crescendo diciamo, vengono meno l’incoscienza e questa capacità di
mantenere la testa libera. Oggi ho una compagna e ho dei figli. E se facessi un
incidente? Anche questo è un pensiero che ha contribuito alla mia decisione».
Camathias ha parlato di essere cresciuto, come uomo, lungo tutta la carriera. In che senso?
«Sono cresciuto grazie ai momenti difficili. Penso al 2003, quando mi trovai da solo, in America, con un contratto nella Champ Car interrotto bruscamente. Senza le possibilità offerte oggi dalla tecnologia per sentire i miei familiari in Ticino. Fu un'esperienza brutale, come brutali sono gli statunitensi nel gestire lo sport. Ricordo gli avvocati, chiusi in uffici enormi ai piani alti di uno dei grattacieli più iconici di Chicago. Un giorno vai bene, il giorno dopo sei fuori. Avanti un altro. Ma, appunto, quell'esperienza mi insegnò moltissimo».
Chiudiamo con la classica domanda di rito: la vittoria più bella?
«Cito una delle ultime,
nel 2017, a Portimão, in Portogallo, Paese cui sono legato perché la mia
compagna è portoghese e, prima ancora, avevo un manager lusitano. Era l’anno in cui
avevo perso mio padre, in maggio. Feci questa gara strepitosa, battagliando
con un pilota estremamente forte e dando il massimo. A caldo può essere questa la mia risposta. Poi, è chiaro, cito le mie due partecipazioni a Le Mans. Due momenti forti al di là del risultato, anche se riuscii a concludere entrambe le gare e, al secondo tentativo, per diverse ore rimanemmo in testa. Rifarei tutto, correrei di nuovo ovunque. Ma non credo che ci siano
più le condizioni per farlo».