Donald Trump subito all'attacco, il tempo stringe
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In realtà, Donald Trump si era già insediato subito dopo la sua vittoria elettorale del 5 novembre scorso. Da quel giorno, senza andare troppo per il sottile, il tycoon ha progressivamente marginalizzato un Joe Biden in difficoltà e ha iniziato subito a «dettare la linea» per i quattro anni del suo secondo mandato, iniziato ufficialmente ieri con il giuramento al Campidoglio, teatro quattro anni fa di un grave tentativo di insurrezione. Di fatto, nelle ultime settimane, i leader occidentali si sono recati più a Mar-a-Lago che a Washington. Segnale di quanto è e sarà forte questa presidenza. Dal punto di vista interno, ora Trump controlla la Casa Bianca, i due rami del Parlamento e la Corte costituzionale. Un poker d’assi che non si vedeva da tempo. Anche il Partito repubblicano è stato rimodellato, non senza difficoltà e resistenze, a sua immagine e somiglianza, e gli è nel complesso grato per la piena vittoria alle urne: dal Grand Old Party non arriveranno problemi almeno fino alle importanti elezioni di midterm.
Tutto questo si tradurrà in una politica interna che tenterà di frenare quel declino economico e sociale che molti americani (che hanno poi votato per «The Donald», minoranze incluse) iniziavano a sentire direttamente sulla propria pelle. La presenza, come vicepresidente, di J. D. Vance, primo millennial alla Casa Bianca ed emissario di quel proletariato bianco semi-invisibile alla politica dei democratici, sembra essere una garanzia in questa direzione. Trump ha trasformato il suo discorso d’insediamento in un vero e proprio comizio: ha attaccato, ça va sans dire, il suo predecessore «per un Paese lasciato in rovina» (con Biden e Harris, alle sue spalle, in palese imbarazzo davanti alle continue standing ovation della platea) e, soprattutto, ha promesso subito qualcosa come cento ordini esecutivi da evadere in brevissimo tempo (Biden ne ha emessi 155 in quattro anni) che non necessiteranno un passaggio dal Congresso. I primi, firmati già ieri, riguardano il freno all’immigrazione dal Messico e alle troppo stringenti regole ambientaliste, con l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. Nei prossimi giorni finiranno nel mirino anche l’ideologia gender, la giustizia politicizzata e l’ipertrofica amministrazione USA, con Elon Musk che avrà il compito di tagliare spese e burocrazia. I prossimi mesi saranno dunque di generale repulisti degli ostacoli, almeno quelli che tali sono dal punto di vista dei repubblicani.
Dopo, inizierà la fase di rilancio economico, con decisioni giocoforza operative che dovranno far seguire fatti alle (tante) parole. Da queste si potrà misurare la reale portata del secondo mandato di Trump (che è più che consapevole, lo si vede dalla velocità con cui si muove, di non averne un altro). Alla cerimonia di ieri tutti, anche i presidenti democratici presenti al giuramento, da Bill Clinton al sempre sorridente Obama, sembravano essersi dimenticati delle tensioni e delle divisioni che hanno accompagnato la campagna elettorale più incredibile della storia USA (il ritiro di Biden, l’attentato a Trump). Ma se la dottrina economica del presidente – che sarà in carica nel 2026, quando l’America celebrerà il suo 250. anniversario – non dovesse avere un effetto positivo su tutto il Paese, anche su quella parte di esso che non l’ha votato, vorrà dire solo una cosa: che l’America si ritroverà, al prossimo giro elettorale del 2028, ancora più divisa che in passato, con tutti i rischi del caso. Se tornerà «grande», lo sapremo solo vivendo, di certo l’America del tycoon sarà molto diversa da quella che conoscevamo dal suo primo mandato.
Discorso diverso per la futura politica estera statunitense. Il primo successo, la tregua tra Israele e Hamas, Trump l’ha già ottenuto, ma non è certo la fine della guerra. Ieri, il presidente russo Vladimir Putin si è congratulato con il neo-presidente e ha aperto al dialogo sulla questione Ucraina. Che riguarda, però, più l’Europa che gli USA. La bacchetta magica di Trump, in questo caso, potrebbe trovare parecchie resistenze, così come le troverà inevitabilmente a Pechino. Ieri, il tycoon ha detto che «non permetterà a nessun Paese di prendersi un vantaggio sull’America». Un programma vasto, il suo, quasi sconfinato. L’epoca dell’unipolarismo inaugurata all’inizio degli anni Novanta è tramontata e un conto è unire l’America promettendo (con retorica populista) una nuova «età dell’oro», un altro è convincere il pianeta che la soluzione Trump sia quella buona per tutti.