Chiesa

«È come se nelle motivazioni di don Lazzeri mancasse qualcosa»

A colloquio con il teologo e filosofo Markus Krienke, dopo le dimissioni di inizio settimana del vescovo – De Raemy futuro vescovo? «Tutto è possibile, anche che Papa Francesco scelga di rompere delle regole che esistono da molto tempo, ma non è il momento di parlarne»
© CdT/Gabriele Putzu
Jenny Covelli
14.10.2022 09:30

«Soprattutto negli ultimi due anni è andata crescendo dentro di me una fatica interiore che mi ha progressivamente tolto lo slancio e la serenità richiesti per guidare in maniera adeguata la Chiesa che è a Lugano. Ve lo dico a cuore aperto: non riesco più a immaginarmi nella posizione che finora ho cercato sinceramente e con tutto il cuore di fare mia. A tutti chiedo da subito perdono». Così il vescovo Valerio Lazzeri, lunedì, ha informato la stampa e la popolazione ticinese delle sue dimissioni. Mons. Alain De Raemy è stato nominato dalla Santa Sede amministratore apostolico con sede vacante fino alla presa di possesso canonica del vescovo da eleggere. La rinuncia di don Lazzeri era nell’aria o è stato un fulmine a ciel sereno? Ne abbiamo parlato con Markus Krienke, professore di Filosofia moderna e di etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano e direttore della Cattedra Antonio Rosmini.

Professore, lei se lo aspettava?
«Che la gestione della Diocesi da parte di Lazzeri, specialmente negli ultimi anni, non fosse tra le più felici e che vi fossero dei limiti non è un segreto, ma attendersi le dimissioni è un’altra cosa. Io credo che – come me – molti siano rimasti sorpresi dalla sua decisione».

Il vescovo si è mostrato in sincera difficoltà e parecchio sofferente. E ha parlato di una decisione presa nel mese di giugno.
«Sì, perché l’iter richiede che la domanda venga presentata in Vaticano e ci vuole un po’ di tempo affinché poi le dimissioni vengano accettate dal Papa. Don Lazzeri ha parlato di “due anni di sofferenza, di distanziamento interiore, di enorme fatica” ad affrontare le sfide di questo ufficio. La decisione, nel suo profondo, è maturata in ventiquattro mesi».

Si può dire che il ruolo del vescovo non è solo religioso ma vi sono delle incombenze anche “politiche”?
«Quello senz’altro, e l’ho sottolineato anche in altre occasioni. Poi, sulle ragioni della coscienza, alle quali don Lazzeri si è appellato, è sempre molto difficile giudicare. Ma se consideriamo le altre cose che ha detto in conferenza stampa, qualche punto interrogativo si pone. Ad esempio, il vescovo ha parlato della difficoltà della gestione istituzionale, finanziaria e amministrativa. Ma ha anche aggiunto di essere sato affiancato da “validi e competenti collaboratori”. È il ruolo che ormai gli pesava, oppure ha scelto male i suoi collaboratori? Da un lato, poi, ha detto che gli mancava l’aspetto umano, però ha parlato di nove anni “segnati da tanti incontri felici, tante testimonianze di fede molto credibili, vicinanza delle persone”. Alla fine, non ci è stata data una chiave molto chiara sul motivo del ritiro. Oltre, ovviamente, alla questione di coscienza che solo il Signore può giudicare».

Prima di lasciare sarebbe stato auspicabile un cambiamento nella gestione, un approccio diverso, altri collaboratori?

La coscienza, concretamente la difficoltà personale, non è quindi un motivo sufficiente?
«È stato lui ad accennare ad altro. Allora, in questo caso, penso che sia sua responsabilità provare a chiarire in maniera concreta ciò a cui fa riferimento.  Faccio un esempio. Nel mese di giugno dello scorso anno, Reinhard Marx, cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga, ha presentato le dimissioni a Papa Francesco per il suo ruolo nei casi di abusi sessuali nella Chiesa cattolica in Germania, che ha definito una “catastrofe”. Ha detto di essersi “sentito colpevole e responsabile per aver taciuto, per non aver agito in fretta e per essersi preoccupato in maniera eccessiva di tutelare la reputazione della Chiesa”. Si è assunto delle responsabilità. Poi Papa Francesco ha respinto le sue dimissioni. Ma Marx ha dato una motivazione concreta, si è assunto la responsabilità di questi scandali. Papa Benedetto aveva usato come motivazione la sua età. Nel discorso di mons. Valerio, invece, non ho trovato una motivazione di questo genere, per lo meno lunedì, perché magari si esprimerà ancora successivamente».

Una sorta di responsabilità nei confronti degli altri, quindi…
«Personalmente mi domando se un prete che magari in questo momento fa un po’ fatica nel suo ministero, si senta a questo punto orfano di un sostengo. Se si senta anche lui più esposto, forse spaesato senza quello “slancio” che è venuto meno a don Valerio. Sono tutte dimensioni di responsabilità connesse a una scelta assolutamente da rispettare».

Le disposizioni sulla rinuncia dei Vescovi diocesani, però, prevedono che «degno di apprezzamento ecclesiale è il gesto di chi, spinto dall'amore e dal desiderio di un miglior servizio alla comunità, ritiene necessario per infermità o altro grave motivo rinunciare all'ufficio di Pastore prima di raggiungere l'età di settantacinque anni»…
«Assolutamente. La motivazione personale non si discute. Lui allude però indirettamente a “cose diventate sempre più difficili” negli ultimi due anni. Ma non dice, ad esempio, “io mi assumo la responsabilità per gli scandali intorno ai preti nella Diocesi”, oppure “io mi assumo la responsabilità per la causa Chiappini”, oppure “io mi assumo la responsabilità per la situazione finanziaria della Diocesi”, oppure ancora “io mi assumo la responsabilità per la chiusura del Giornale del Popolo”. Tutti argomenti che l’opinione pubblica conosce e che sono di una certa importanza. È come se mancasse qualcosa nella comunicazione di una scelta così importante. E allora sorge la domanda: prima di lasciare sarebbero stati auspicabili un cambiamento nella gestione, un approccio diverso, altri collaboratori? Dire “non mi sento adeguato” è una cosa, dire “ho sbagliato in questo e quello e mi assumo la responsabilità e per questo inoltro le dimissioni” è tutta un’altra cosa».

Sappiamo quanto Papa Francesco sia propenso a rompere certe regole che ci sono soltanto perché esistono da sempre

È giusto dire che la carica di Alain De Raemy quale amministratore apostolico di Lugano potrebbe durare un mese, un anno o più di un anno?
«È giusto, anche perché il Vaticano gli ha conferito moltissime competenze. E il suo primo discorso aveva il carattere di essere qualcosa di più delle parole di un amministratore. Ha parlato di voler conoscere le persone, andare fino alla valle più lontana, incontrare tutti. Ha detto di avere già dormito in Curia la notte prima della conferenza stampa. Ha promesso anche di imparare il dialetto ticinese. Si è presentato come qualcuno che non si vede come una figura di amministrazione tecnica, ma che vuole stabilire un legame concreto con la popolazione. Legami che non si creano in pochi giorni o poche settimane. Le sue parole fanno pensare a una missione destinata a durare».

Ma è impossibile che diventi il futuro vescovo, che dovrà avere un legame di cittadinanza con il territorio ticinese come prevedono le leggi canoniche.
«In questo momento la regola è questa. La domanda è: cosa accadrebbe se lui dovesse davvero restare per molto tempo e dimostrasse di possedere le competenze necessarie? Sappiamo quanto Papa Francesco sia propenso a rompere certe regole che ci sono soltanto perché esistono da sempre. Di fronte a questa situazione non credo sia escluso nulla, anche la possibilità di rompere con questa regola. Una cosa che, magari, tra i fedeli qualcuno auspica. Perché tra i papabili “candidati” ticinesi alla successione ci sono in buona parte gli stessi nomi di cui si parlava nove anni fa per il post don Grampa. Questo dimostra quanto si faccia fatica in Ticino a pensare a persone veramente nuove e distaccate da certe dinamiche che si sono create nel tempo. Ovviamente nessuno prevede il futuro e credo che anche in Vaticano in questo preciso momento ci siano più ipotesi che certezze. Per ora si ragiona solo per ipotesi».

Papa Francesco ha incontrato personalmente il vescovo Lazzeri per ascoltare le sue motivazioni?
«Il Papa, per ovvi motivi, quotidianamente si affida alle sue congregazioni. Ma interviene anche personalmente. Se abbia o meno accolto don Valerio non lo so, ma me lo auguro. Lugano ha una certa vicinanza con il Vaticano. A Roma si è coscienti delle attuali problematiche e delle questioni difficili da risolvere. E credo che in questi casi il Santo Padre metta la propria mano».

Insomma, ai ticinesi non resta che aspettare.
«Il fatto che se ne parli e che ci sia interesse significa che la Chiesa non è qualcosa che non interessa più alla società. La gente ha ascoltato le parole di don Valerio e ha provato del dispiacere. Si domanda cosa sta succedendo. Per me si tratta di una dinamica sana. Le persone riconoscono il vescovo come figura rilevante nella società».

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