I 40 anni di Mattia Croci-Torti: «Sogno spesso e a volte piango, ma non ho rimpianti»
Domenica, giorno di Lugano-Sion, Mattia Croci-Torti compirà 40 anni. Una tappa importante, solitamente accompagnata da bilanci e introspezione. Noi, con il Crus, abbiamo provato a fare entrambe le cose. Parlando poco di calcio e tanto del resto. Di quello che conta veramente.
Una frase attribuita a Picasso recita: «I quarant’anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma è troppo tardi». Condividi?
«La verità è che in questo momento della vita non ho trovato il tempo necessario per riflettere sul traguardo di domenica. Sono una persona che ha sempre organizzato grandi feste in occasione delle date importanti. A questo giro, però, questa dimensione mi sfugge. Arriverà sicuramente più avanti. Ora ho altri pensieri, tantissimi altri pensieri. Che hanno il sopravvento. In ogni istante».
Quando, dunque, sarà il momento della calma? Quando Mattia Croci-Torti riuscirà a respirare e, appunto, riflettere da fresco quarantenne?
«Il 21 giugno. Data che coinciderà con gli esami finali del mio percorso di formazione per diventare allenatore a tutti gli effetti. Un percorso durato otto anni, ma che negli ultimi dodici mesi ha richiesto un sforzo - anche sul piano nervoso - enorme. Sono sincero, il triplice impegno lavoro-famiglia-studio non è sempre stato facile da gestire».
Sei riuscito a fare tutto quanto sognavi in questo spezzone di vita?
«Non ho rimpianti, quello no. E il motivo è semplice: ho vissuto al massimo ogni esperienza. Forse, a pensarci bene, sono stato fin troppo umile e realista in determinate situazioni. Insomma, ho accettato i miei ruoli. Rinunciando, di riflesso, a spingere per ottenerne di più importanti. Sia nel calcio, quando a 21-22 anni non mi sono lasciato inebriare da alcune buone stagioni. Sia in ambito professionale, in qualità di rappresentante che non ha forzato la carriera per mettere le mani su compensi più importanti. Non sono mai stato un arrivista. Anzi, con grande serenità non ho mai perso di vista i miei limiti. Ed è proprio grazie alla consapevolezza dei miei mezzi che ho anche saputo cogliere parecchie opportunità. Credo nel lavoro. Perché quando ci metti passione e perseveranza, le opportunità prima o poi si presentano. Nello sport e più in generale nella vita».
Mattia Croci-Torti sogna ancora?
«Sogno sempre. Anche la scorsa notte. Nei sogni credo fermamente. Li ritengo una parte importantissima della vita di un uomo. Nel mio caso è benzina. Un fattore trainante, sì. E non solo in riferimento al calcio. Ci sono stati frangenti, per esempio, dove sognavo continuamente di viaggiare. Nella realtà, tuttavia, non potevo farlo. Ultimamente, per contro, continuo a immaginare di aver già battuto il Lucerna in semifinale di Coppa Svizzera. E mi capita molto spesso di svegliarmi il mattino ridendo».
Ricordi ancora come hai festeggiato i 20 anni? E i 30?
«Assolutamente. Anche perché ero attorniato da molti amici. I miei compleanni sono sempre stati dei preziosi momenti di ritrovo. Dei piccoli, grandi eventi, per far confluire in un solo luogo compagnie che l’università o le carriere professionali hanno inevitabilmente allontanato. Per questo motivo mi spiace non potermi confermare domenica; in ogni caso non sarebbe una festa a dovere. Come la voglio io. E come, presto o tardi, organizzerò».
Zlatan Ibrahimovic a 40 anni è ancora in campo. Anzi, non ha nascosto che l’idea di smettere sia fonte di panico. Cosa ne pensi?
«Beh, se guardo alla mia carriera, gli ultimi due anni da giocatore sono stati un lento trascinarsi. A causa di un tendine lesionato. E vedermi in quelle condizioni mi ha fatto soffrire. Ho smesso così, da un momento all’altro, quando iniziavo a non divertirmi più. Allora si è quindi presentata un’opportunità. Una di quelle di cui parlavo prima. Una sliding door, messa lì da Marco Degennaro, che mi ha permesso di allenare il_Chiasso con Gianluca Zambrotta. Devo ringraziare Dege, in me ha notato qualcosa prima degli altri. Come decisivi, più tardi, sono state altre due figure: Giovanni Manna, che mi prelevò dopo la parentesi al Balerna per farmi assistente di Tami a Lugano, e Angelo Renzetti, che la scorsa estate ha voluto darmi la possibilità di restare a Cornaredo, facendomi rinnovare il contratto nel bel mezzo della cessione societaria».
E tu, di cosa hai paura a 40 anni?
«Di nulla. Non ho mai avuto paura nella vita. Dubbi, quelli sì. Sul campo come nella vita privata. Viaggiando a cento all’ora, però, difficilmente permetto alla negatività di insinuarsi nel mio quotidiano. Anche nei momenti più complicati prevale un altro tipo di sensazione. La ricerca di uno spiraglio o qualcosa del genere. Devo quest’attitudine all’educazione dei miei genitori. Sono loro che mi hanno insegnato a non avere timore di fronte alle criticità, invitandomi semmai a individuare una soluzione. È stata una grande lezione».
Non hai mai disputato una partita in Lega nazionale A: ti rode un po’?
«Non ne ho mai fatto un’ossessione. Certo, come tanti, è stato un forte desiderio. E ci sono andato molto vicino. Sono fiero del mio cammino sportivo. Ma non direi che mi rode. Ribadisco, ero pienamente consapevole del mio livello».
E se dicessimo che ti sei aggrappato alla carriera di allenatore per provare a colmare i vuoti del calciatore sbaglieremmo? O c’è un pizzico di verità?
«Non è così. Ho sempre vissuto il campo da calcio come fonte di divertimento. Uno spazio dove sfogarmi, anche, e un ambiente fertile per fare gruppo. Ma ho tanti altri interessi e non ho mai dovuto pregare in ginocchio qualcuno affinché mi facesse rimanere nel giro. Il caso, semmai, ha voluto che in determinate circostanze restassi appeso a questo mondo».
Hai tre figlie: Cassandra (4 anni), Smeralda (7) e Dorotea (9). Il papà allenatore di un Lugano mai così in alto in Super League le rende un po’ orgogliose?
«Sono bambine curiose in effetti. Ma vivono il mio lavoro con molta leggerezza. Capita, quando perdiamo, che riportino a casa le battute del compagno o di un maestro. Mentre talvolta mi chiedono se sono finalmente stato licenziato, così da poter trascorrere più tempo assieme. Per fortuna c’è la mamma che le trascina verso un altro sport, l’hockey, e un’altra squadra... (ride, ndr.)».
Hai menzionato i gravosi impegni degli ultimi mesi. Senti e in qualche modo ti rimproveri di aver trascurato la famiglia?
«Cerco di essere un papà e un compagno presente. Il più possibile, soprattutto durante la settimana, il pomeriggio e la sera. Purtroppo, ed è quello che mi dispiace, non sempre ci sono con la testa. Faccio comunque del mio meglio per trasmettere l’affetto che meritano le persone a me vicine. Se penso alle mie figlie, in fondo sono cresciute con un genitore spesso assente i weekend. Per loro è normale, per certi versi sono state plasmate così».
Chi non si perde una partita del Crus sono papà Giorgio, mamma Tiziana e la sorella Alice. Che valore attribuisci a questa affettuosa attenzione?
«Siamo una famiglia molto unita. È sempre stato così. E anche quando non ci si vede per un po’, io e mia sorella sappiamo che il sostegno di mamma e papà non verrà mai meno. Sono persone guidate da grandi valori, sul piano dell’educazione e dell’umiltà. Valori che hanno saputo trasmettermi. La partita, in questo senso, è un momento di unione. Vederli in tribuna mi riempie sempre il cuore. Sì, sono figure importanti, che riescono a darmi ancora tanta forza».
È più semplice gestire quattro donne in casa o 20 uomini in spogliatoio?
«Sicuramente quattro donne in casa. Di più: fino a due anni fa non sarei stato in grado di domare uno spogliatoio di serie A. Le stagioni al fianco di Maurizio Jacobacci, per fortuna, sono state cariche di responsabilità. Mi hanno dato la sicurezza necessaria per essere all’altezza della situazione una volta chiamato in causa».
A proposito di gestione: alcune settimane fa hai ammesso di aver cambiato atteggiamento in panchina. Spiegando di voler essere più freddo e quindi più lucido. Ma perché, in qualche modo, snaturarsi?
«Non si tratta di snaturarmi. Rimango una persona fortemente emozionale. Non ho dubbi su questo. Con i cinque cambi a disposizione, però, il calcio è cambiato molto. Ora richiede una freschezza mentale non indifferente, per tutti i novanta minuti, se si vuole cercare di sorprendere l’avversario. L’esperienza che sto vivendo, dunque, mi ha fatto capire che è meglio riflettere un po’ di più che accentuare la gestualità o lasciarsi travolgere dagli eventi di una partita. E la cosa è di grande aiuto. Per dire: dopo l’ultima partita con il San Gallo, riguardando le immagini in televisione, mi sono vergognato. Si sentiva gridare solo me. No, non mi è affatto piaciuto. Mi ha fatto addirittura male. Sono solito dare molta fiducia ai giocatori, mentre in quel caso sembrava avessi il “joystick” in mano».
In panchina ti si è anche lasciato andare alle lacrime. Dopo aver battuto l’YB negli ottavi di Coppa Svizzera. È l’ultima volta che hai pianto?
«In realtà mi veniva da piangere anche poco fa, parlando dei miei genitori. E, sì, mi capita ogni tanto, prima della partita. Mentre mi trovo solo. Piangere ed emozionarsi non sono qualcosa di negativo. Purché, per l’appunto, non accada durante un match. Intaccando la concentrazione, compromettendo scelte e dettagli decisivi ai fini del risultato. A questo livello, e lo ripeto, bisogna restare lucidi. D’altronde non mi nascondo: in questo momento, in Super League, sono l’allenatore svizzero più forte. O performante se preferite. E più in alto sei, più devi essere bravo a lavorare sui punti deboli: nel mio caso la gestione del comportamento in panchina».
Il mondo del calcio è spietato. Raramente genuino. Un pochino ti senti fuori posto?
«No. È vero, in questo universo l’episodio negativo e la polemica tendono a oscurare tutto il resto. E cioè i momenti belli e costruttivi, dai quali però io attingo pienamente. Solo così riesco a gestire chi preferisce scavare nel torbido, cercando a tutti i costi le cose che non funzionano. Dopo tutto, fa parte del gioco».
In che modo riesci a farti scivolare addosso la pressione e gli attacchi pretestuosi?
«Dall’avvento del lockdown, tutte le sere esco a camminare. Venti minuti in solitaria. A volte lasciando a casa anche il telefonino. È un momento prezioso, fondamentale addirittura. Non riesco a farne a meno. Banalmente, mi permette di fare la tara sugli avvenimenti della giornata. Ripenso alle cose andate bene e quelle un po’ meno. M’ingegno per trovare soluzioni. E, a consuntivo, scovo sempre le motivazioni negli aspetti positivi. Attenzione però: questo non significa che lavorare a Lugano, in un ambiente cucito quasi su misura sulla mia persona, sia semplice. O più semplice. Come Luca Cereda ad Ambrì, e a differenza dei miei predecessori, devo convivere con delle sensazioni completamente diverse. Tutti mi conoscono, tutti hanno delle aspettative di un certo tipo. E rimanere il Crus di sempre, in questa nuova dimensione, non è così evidente».
Tra due settimane il regalo più bello? Per te e per i tifosi del Lugano?
«Un regalo, solitamente, non implica sforzi. Questo, invece, non va assolutamente dato per scontato. Dovremo sudarcelo. E riceverlo o donarlo rappresenterebbe una gioia immensa. Sogno uno stadio che spinga il Lugano dal primo all’ultimo minuto. Questo sì che sarebbe il più bel riconoscimento. Per me e soprattutto per i risultati ottenuti da una squadra che a inizio stagione viveva nella totale incertezza».